"La gente a tutto è disposta a rinunciare, fuorchè ai propri errori."

(Indro Montanelli)







lunedì 17 dicembre 2012

IL DOTTOR MISANTROPI


Qualche tempo fa esisteva, in un paesino poco distante da questo, un medico molto particolare.  (Ovunque tu sia, qualunque sia il tuo paese, il luogo dove si svolge la nostra vicenda non sarà mai troppo distante da te. Forse questi fatti accaddero proprio qui, nella porta accanto alla tua.
Qui più che altrove, infatti, si dispone del tempo: il tempo per osservare il mondo e provare a capirlo, il tempo per far decantare un sentimento, il tempo per interpretare il silenzio.)

Il dottor Misantropi era un uomo di mezza età, capelli brizzolati, baffi folti, qualche chilo di troppo soprattutto sulla pancia, e un bel colorito in viso a testimonianza della sua buona salute; quando lo si incontrava per strada, mentre andava in ambulatorio, salutava tutti con grande cordialità ed elargiva sorrisi a grandi e piccini. Un medico impeccabile, insomma, dotato di quella cortesia e di quel calore che un medico di famiglia dovrebbe sempre avere.
Purtroppo, però, su di lui si erano sempre raccontate strane storie: alcuni raccontavano di medicinali bizzarri e sconosciuti, altri erano entrati per una semplice influenza ed erano usciti con ben altre convinzioni. In particolare, poi, si diceva che quando i pazienti cominciavano a parlare di stress, di stanchezza e di “preoccupazioni della vita quotidiana”, ecco che i suoi occhi si accendevano di una luce strana ed iniziava i suoi discorsi.

Quali erano le malattie che amava sconfiggere? La buona fede inconsapevole, l’ascolto viziato della propria anima, l’incapacità di conoscere i propri sentimenti e dunque di indirizzarli.
“Gli uomini, troppo spesso – amava iniziare così i suoi racconti – non si ascoltano fino infondo. Amano la sicurezza, e non ammettono mai il dubbio: dicono di conoscersi bene e di sapere con assoluta certezza quali sentimenti provano e quali invece no. Così quando si arrabbiano, subito si affrettano a chiarire che è una rabbia moderata la loro; quando sono felici, quando amano, invece, il loro amore è rivolto al mondo intero, in un abbraccio che tocca realtà che neanche possono immaginare.” A questo punto, il dottore abbassava lo sguardo, si sfilava gli occhiali ed iniziava a lucidare una lente con un lembo del suo maglioncino di lana.

“Non vorrei certo essere troppo diretto, né tantomeno vorrei mai spaventarla. Ma credo fermamente e clinicamente che il suo più grande problema ora nasca dalla rabbia. Lei è terribilmente arrabbiato, ed è il primo sentimento che la accompagna ogni mattina. D'altronde, chi potrebbe biasimarla: ha lavorato una vita, spesso sacrificando gli affetti e gli svaghi, ed ancora non vede la possibilità di riposarsi; i suoi figli, per i quali ha tanto lavorato, non riescono a costruirsi una vita.
Il tanto lieto fine sembra proprio non arrivare! Ogni giorno lo slogan è sempre lo stesso: le cose non cambieranno per ora, bisogna pazientare.
Questo, poi, per quanto riguarda la società, senza pensare ai suoi problemi personali che non conosco, ma che ci saranno sicuramente.”

Alcuni, già dopo queste poche ma incisive parole, si alzavano e se andavano, soprattutto se avevano bambini da difendere: i bambini non devono ascoltare queste cose, non devono scoprire che il mondo non è come una favola. Devono crescere con le nostre stesse illusioni e devono convivere, poi, con la nostra stessa delusione.

“La cura? Lei deve riconoscere a se stesso la rabbia che prova. Tutti noi dovremmo farlo. Non mi guardi in quel modo, tutte le cure all’inizio ci sembrano difficili e, infondo, non le comprendiamo mai abbastanza. Queste pillole la aiuteranno per i primi tempi: non si preoccupi, non sono psicofarmaci, sono slatentizzatori di sentimenti, tutto qua.” A questo punto, si sfilava lentamente gli occhiali ed inizia a scrivere quegli strani nomi: “Mis-Oginex”, “Misantropax in gocce”, “Omofobina” e così via.

“La rabbia, se non viene riconosciuta, se viene semplicemente repressa si radica nelle nostre menti fino a diventare odio. L’odio è pericoloso perché ci legittima a distruggere l’oggetto odiato, che si tratti di oggetti o di persone.”

A questo punto della discussione, si narra che ogni paziente, con un’espressione indignata in volto, si alzava e se andava, promettendo spesso di non farvi più ritorno. Nessuno sembra aver mai ascoltato la fine del discorso; ma il dottore, si narra, l’abbia sempre pronunciata:
“L’odio nasce dalla paura e solo gli stolti pensano di non provarne. Sarebbe un mondo migliore se si odiasse con consapevolezza: si odierebbe molto meno.
Non siate sciocchi, non nascondetevi dietro un dito.
Quel dito, è sicuro, l’avete già puntato contro qualcuno.

Non esiste un eroe senza un cattivo, né una civiltà senza un nemico.
E’ l’unico modo, infondo, per fuggire all’ indifferenza.

Ma attenzione, non travisate:
Bisogna maneggiare con cautela! Anzi, con consapevolezza!”



lunedì 19 novembre 2012

PROSPETTIVE: LA CULTURA IN ITALIA OGGI


Parlare di tutela e sviluppo della cultura in Italia oggi significa trattare un tema molto importante ma spesso affrontato in maniera poco consapevole ed efficace. In primo luogo appare evidente sottolineare il legame necessario tra i due termini dell’indagine: non può esservi sviluppo, se non c’è tutela di ciò che si possiede. Un concetto semplice, apparentemente uno spot, un motto privo di profondo valore; invece non è così, ed è proprio questo il problema fondamentale del nostro Paese. Manca, prima di ogni altra considerazione, la consapevolezza, la coscienza del ruolo attivo che la cultura e l’arte hanno nelle nostre vite.

Sembra essere avvenuto, ormai da decenni, un cortocircuito per cui l’arte e la cultura in ogni sua forma esistano e vadano fruite solamente attraverso lo strumento del “museo polveroso”: l’unico spazio che, troppo spesso, l’Italia ha dimostrato di concedere alla cultura, in tutte le sue espressioni, è quello della contemplazione più o meno consapevole ed ammirata. La cultura non è più vista come qualcosa di vivo, di presente, capace di interagire ed arricchire chi vi si avvicina; non esiste più la convinzione per cui si possa fare cultura, praticarla; ora è semplicemente un lungo album fotografico, per ricordare ciò che di importante è stato, ma non è più. La cultura è quindi divenuta nient’altro che il “luogo dei ricordi”.

E’ a partire da queste considerazioni, dunque, e dalla volontà di cambiare questo stato di cose che bisognerebbe parlare ed interrogarsi sullo stato della cultura oggi.

In questa prospettiva, il primo passo riguarderebbe la necessità di risvegliare la coscienza sopita dei cittadini e delle istituzioni: questo è possibile sempre partendo dall’educazione e dalla formazione delle nuove generazioni e, dunque, del futuro. Una profonda riforma della scuola dovrebbe essere un momento necessario in questa direzione: riconoscere un valore all’istituto scolastico e al corpo docente significa garantire agli studenti una conoscenza ricca e profonda. Ma riconoscere un valore al corpo docente significa, anche, offrire loro delle garanzie economiche, dei contratti che permettano di costruire percorsi personali e professionali, significa riconoscere il loro ruolo fondamentale nella nostra società, non solamente con la retorica dei comizi.

Un’altra conseguenza della visione “museale” della cultura riguarda, poi, il vantaggio economico che un patrimonio culturale ed artistico come quello italiano può portare con sé: l’Italia è un paese in cui il turismo ha un ruolo fondamentale e potrebbe, da solo, costituire gran parte del Prodotto Interno Lordo. In questa prospettiva, varrebbe la pena di cercare delle modalità sempre nuove per fare turismo, per presentare le nostre ricchezze. Uscire dalla logica museale, in tal senso, significherebbe proporre un’arte ed una cultura che siano sempre più interattive con il fruitore appassionato, con il passante occasionale, con il cittadino tout court; interattività data sia dall'utilizzo delle nuove tecnologie (guide multimediali, applicazioni per smartphone, realtà aumentata) che da una maggiore comunicazione tra il turista e l’ambiente che va a visitare.

Liberare la nostra cultura, e più in generale la nostra conoscenza, dagli stretti confini di un vecchio museo, infine, significa rivalutare e ripensare le biblioteche. Qui, più che altrove, il fraintendimento è stato pienamente realizzato: luoghi deputati alla raccolta di testi messi a disposizione per la libera fruizione dei cittadini trasformati, invece, in emblemi di un collezionismo sterile e poco partecipato. La biblioteca dovrebbe essere un luogo della comunità, a disposizione di tutti; dovrebbe essere un luogo di passaggio, di scambio e di comunicazione, al pari di un aeroporto o di una stazione ferroviaria. La biblioteca, però, dovrebbe essere anche il luogo della sosta, lo spazio dove fermarsi e riflettere, o semplicemente distrarsi. Per questo motivo, bisognerebbe rivolgere nuovamente e in maniera più attenta l’attenzione a questi luoghi ed investirvi, creando manifestazioni, incontri per persone di tutte le età; bisognerebbe dimostrare ai cittadini le potenzialità di tale luogo e farlo divenire un punto di riferimento vivo ed importante nelle nostre società. Così come il cinema possiede un ruolo e catalizza l’interesse di un’ampia fetta della popolazione mescolando cultura, conoscenza ed entertainment, un ruolo differente ma allo stesso modo ricco dovrebbe essere restituito alle biblioteche.

Questi sono solamente alcuni esempi, alcuni possibili interventi  che nel tempo dovrebbero essere realizzati affinché le nuove generazioni possano possedere una nuova e diversa idea di cultura e possano tutelare e sviluppare a pieno quanto i secoli hanno consegnato loro. Tutto ciò che potrebbe essere fatto, tuttavia, parte sempre dalla necessità di intervenire sul cortocircuito nel quale viviamo e secondo il quale la cultura può solamente risiedere in un vecchio museo, chiusa in una vetrinetta da esposizione, senza nessuna possibilità di interagire ed arricchire il mondo circostant

venerdì 7 settembre 2012

UN PASSO AVANTI


Dicono che il momento in cui passi oltre sia un istante colmo di tutte le sensazioni del mondo, quasi che in un quel brevissimo momento tu abbia la possibilità di sentire tutte insieme le emozioni che ti hanno accompagnato per tutta la vita.

Paradossalmente è proprio un momento da vivere. L’ultimo in nostro possesso.
Se di possesso si può parlare sotto questo cielo, se di possesso non si possa parlare anche altrove.

Estrema esportazione del concetto troppo umano della proprietà privata.

E’ l’altra faccia del dolore, della sofferenza: quel senso di sopraffazione, di sconfitta trova il suo necessario corrispettivo nell’intensità di un momento dedicato solamente a noi, niente di più intimamente nostro. Non siamo mai stati, e certamente non saremo mai più, protagonisti di qualcosa come della nostra morte.
Spiacevole consolazione.

Capita anche di mancare quell’appuntamento, e sembra quasi sbagliato, disonesto se intenzionale, un peccato nell’accezione laica del termine.
Ormai, certo, è di gran moda: morire senza averne coscienza, in un attimo che subisci incosciente e che ti porta via. Sacrifichi la consapevolezza, la presenza, gli addii.
Ma infondo non tutti siamo bravi con gli addii.
E’ questione di forma, e traccia spesso la differenza.

Così c’è chi vorrebbe fare un passo, dopo un lungo sospiro, accettare il necessario e godersi il momento, irripetibile. C’è invece chi fugge, corre e spera di rotolare via, come per una caduta inaspettata.

Non esiste la risposta.
Inaspettato. Irripetibile. Due facce della stessa medaglia.

Ma alla fine, consolatoria come solo la realtà sa essere, è la vita a segnare il passo, in modo democraticamente ineccepibile.
Ben pochi potranno dire la loro, ancora meno potranno decidere.

E tutto si consumerà nell’attimo più intenso che ci sarà mai stato concesso, quando, con eleganza o negazione, compiremo un ultimo passo avanti.

mercoledì 1 agosto 2012

UMANO...TROPPO UMANO!

Da circa cinquant’anni ormai la scienza si è misurata con la possibilità di impiantare dispositivi elettronici negli esseri viventi, ovvero di creare quelli che sono stati chiamati “cyborg”.

Si iniziò da un topo al quale si innestò sulla coda un meccanismo capace di misurarne e controllarne le funzioni vitali; si fecero innumerevoli esperimenti, si andò sempre più avanti sino ai giorni nostri.

Oggi possiamo sostituire i nostri arti, qualora fossero lesionati, con degli arti artificiali in grado, però, di percepire e rispondere, proprio come quelli biologici, agli stimoli inviati dal nostro cervello.
Già da tempo, poi, possediamo dei piccoli dispositivi in grado di implementare il funzionamento del nervo uditivo nei sordi o di permettere al cuore di battere rilasciando stimoli elettrici.

Gli interrogativi si pongono oggi, davanti ad un panorama in continua evoluzione, davanti al sospetto che presto arriveremo ad un punto tale per cui il concetto stesso di essere umano, biologicamente inteso, andrà sfuggendo ad una chiara definizione.

Oggi ci chiediamo in quale percentuale l’artificiale può interagire e integrare il naturale, in modo da continuare a vedere infondo l’uomo.

Oggi ci preoccupiamo di individuare la soglia da non violare.
Rischiamo veramente di perdere il controllo di individui ibridi e molto più potenti dei primitivi esseri umani oppure questa è ancora solamente la trama di un film di fantascienza anni ’80?

Mentre penso, non posso davvero fare a meno di pensare, che la mia naturalezza biologica è stata già irreversibilmente corrotta dall’adozione degli occhiali. Buffo eh?!
Ma il concetto è lo stesso: un supporto esterno, più o meno tecnologico, che diviene un’appendice, fissa o mobile, del corpo umano e che lo migliora, lo perfeziona nella sue mancanze.
(Non paga della mia violazione, indosso perfino le lenti a contatto…)

Ma ancora più a fondo giace l’idea imperitura del miglioramento dell’essere umano; o meglio, della vocazione umana al miglioramento di se stessa.
Gli esseri umani hanno sempre avuto questo obbiettivo, questo fine.
L’hanno fatto con la scrittura, con la volontà di fermare ciò che, per natura, era fuggevole; l’hanno fatto con le leggi per la convivenza civile, con l’architettura, con l’arte e con la scienza.

Da questa prospettiva, allora, non abbiamo fatto altro, per millenni, che rispondere nei modi più disparati ad una sola domanda: cosa posso fare per migliorare me stesso e la mia esistenza?

Il cyborg, dunque, non è che l’ultimo stadio della nostra evoluzione. Un’ibridazione contestuale alla nostra natura, proprio come ci appaiono a posteriori tutte le altre (da quando abbiamo deciso di coprirci all’utilizzo dello smartphone).

IL CALCOLO

Appena duemila Euro: tanto vale, a quanto pare, la vita di un giovane di trentadue anni.

Stamattina, davanti a quel giornale, a quella solita pagina grigiastra, questo mi ha colpito.

E dire che il caso mediatico, almeno un po’ c’era; se muori sul lavoro, sei stato beffato; ma se stavi montando il palco di Laura Pausini (o di Lorenzo Jovanotti o dei Radiohead, tanto per ricordare quanti palchi sono crollati negli ultimi mesi) allora almeno due parole sui Tg nazionali, un trafiletto sul quotidiano te lo meriti.

E vivi, anzi muori, di “luce riflessa”, “all’ombra di un sogno”.

Non è poca cosa, forse il massimo che ti puoi aspettare.
Certo non vale la pena parlare di giustizia, di verità, di merito.
Troppo incomodo.

Ma vale per tutti, più o meno.  

Perché bisogna decidere, volenti o nolenti, quanto vale la vita di un essere umano; conteggiando l’età, l’aspettativa di vita, la paga mensile, i legami istituzionalizzati.

Estremo tentativo di annientare il fato; desiderio tutto umano di controllo.

Ma dire ad una famiglia che la loro perdita vale 1.936,80 Euro è un’altra cosa.

Dire che una giovane vita, passata a lavorare tanto per pochi soldi, in qualche modo si è intrinsecamente svalutata anche davanti alla morte è lontano dalla verità, dalla moralità, dalla responsabilità.

Più vicino solamente all’interesse unilaterale.

Finché lo leggi ti indigni, ma poi gira pagina, sei costretto a girare pagina.
Una veloce archiviazione segue una subitanea indignazione.


Quando smetteremo di indignarci solo nel tempo libero, nelle pause o dopo cena, appesantiti dalla digestione?


giovedì 12 luglio 2012

DIALOGHI D'ARTE

Cosa si prova nel vedere la propria opera completa, stampata, proiettata o ascoltata? Ci si sente almeno un po’ spettatori come tutti gli altri?
Quanta affezione si può ancora sentire, quanto senso di perdita, di qualcosa che, infondo, se ne è andato e non è più nostro…

Parli con un regista, siete in un bar, in una minuscola piazzetta di montagna, lontana anni luce dal mondo, da quel mondo. Allora cogli l’occasione, prendi un bicchiere di vino e riproponi la domanda che ti è sempre sembrata quella fondamentale, quella da cui partire.

Perché si possono chiedere davvero tante cose ad un artista, o almeno molte sono quelle che vengono realmente domandate: questione di dinamiche, di situazioni. Di civetteria, a momenti.

Spesso, non vogliamo neppure sapere niente, in un’invisibile mortificazione collettiva; sono le volte in cui ti basta una foto, addirittura una firma.
Perché di una firma si parla, fuori da ogni congettura romantica.
Fermiamo in questo modo, nient’altro che un individuo, colto in un momento di assoluta non arte.

Manchiamo l’obiettivo.

L’autografo di un pittore, non è dipinto.
La foto dell’attore non coglie il personaggio.
La dedica di uno scrittore non è narrazione.

E’ la grande metonimia: la parte per il tutto, il tutto per la parte; il contenuto che si confonde con il contenitore. Allora vorrei tanto la maglietta di quel cantante così come, perdonate l’ardire, la reliquia del santo.

Avvicinamenti progressivi e sgraziati, nella convinzione di arrivare alla fine.

Il problema è che vorremmo bloccare un pezzetto di arte e portarcelo via con noi, vorremmo toccare e capire un’emozione.

Con il retino a caccia di raggi di sole.


Ma ancora di più mi domando cosa significhi stare dall’altra parte; passare ore tra aerei ed automobili, per venire quassù infondo al mondo, rispondere con maggiore o minore eleganza e gentilezza alle solite domande, prendere una targa argentata, l’ennesima, un pacco di salumi e formaggi e poi andar via.
Mangiare la vita a piccoli morsi scomposti, vedere la luce in fugaci lampi accecanti.

Potrebbe raschiarti l’anima: un mio dubbio.
Sarebbe un bel prezzo da pagare, anche per l’arte, forse.

E poi, il grande protagonista, la tua creazione presentata, apprezzata, applaudita.
Tu la guardi, la osservi, la riconosci.
Ma è già lontana, è già qualcosa di molto diverso, non è più, se non in parte, la tua opera, la tua idea.

Nel momento esatto in cui esce dai tuoi occhi, così come l’avevi vista per la prima volta nella tua mente, e diviene qualcosa che puoi osservare anche tu, con altri occhi, se ne è andata.
L’hai perduta nella sua essenza primitiva.

Dicono che le creazioni artistiche sono proprio come i figli, solo che con quest’ultimi una buona parte del progetto viene lasciata al caso.

Non amo molto questo parallelo, lo trovo troppo sentimentale, poco autentico.

Va riconosciuto, però, che nel senso di possesso e poi nella perdita si assomigliano davvero.

Qualcosa di profondamente ed univocamente tuo, qualcosa a cui ti senti legata da sempre, qualcosa di cui ti riconosci artefice e responsabile; la chiara consapevolezza, sin da principio, della partenza, dell’abbandono ineludibile, del volo necessario.

Si dice che i figli si fanno per il mondo, ma è una bella bugia.
I figli si fanno per sé stessi, per godere di quel lasso di tempo in cui saranno solo nostri, in cui saranno i nostri manufatti; con un po’ di fortuna, delle vere e proprie opere d’arte.

Ma, come in un libro, conosci già l’ultima pagina.

venerdì 29 giugno 2012

A GARA DI RICORDI - MISS OLOCAUSTO

Non servono preamboli né note introduttive: appena qualche giorno fa si sono tenute in Israele
le finali di un concorso volto all’individuazione di Miss Olocausto. Ultrasettantenni da tutto il paese sono accorse per parteciparvi.

Perplessità.
Astuto ricatto etico e logico che ti lascia perplessa, incapace di dare un qualsiasi giudizio che, per lo meno sul momento, ti sembri adeguato.

Basta un istante per cadere nella retorica, nella “faciloneria”, nel pericoloso moralismo da bar dello sport. Un istante, un confine sottilissimo a dividere te da quello che la tua mente potrebbe o dovrebbe pensare.

Allora ti arrampichi all’empirico: cominci a guardare le foto di quelle belle vecchiette che hanno condiviso un’esperienza tra le più assurde che il mondo possa ricordare; che sono state tutte umiliate ed uccise, anche se sembrano ancora in vita.

Donne rinate, donne che hanno avuto soprattutto la forza di andare avanti, di respirare ancora, quando il solo pensare all’accaduto toglierebbe il respiro a chiunque. Donne che non hanno rinunciato alla bellezza, perché lo sanno, che solo questa potrà davvero salvare il mondo.

E allora quasi ti convinci.
Quasi.

Perché una donna che ha sofferto non dovrebbe avere il diritto alla frivolezza? Perché non può giocare, se ancora conosce il segreto del gioco?

Ma poi ti fermi e senti tutti gli argomenti affollarsi nella tua mente, tocchi la complessità senza vederla chiaramente.

Perché il diritto di ogni donna, come di ogni essere vivente, inteso come individuo singolo è fuori discussione.

E’ la categoria che lascia perplessi; è l’incapacità di non essere altro che una sopravvissuta, di presentarsi, per lo meno in quella sede, sempre e solo per quello che è stato subito.
E’ l’emancipazione mozzata.

Retorica da un lato e moralismo dall’altro.
In tutta onestà, non riesco a formulare un giudizio.
Non lo so se è stata una bella idea o soltanto una macabra reinterpretazione kitsch in chiave contemporanea di qualcosa che, invece, andrebbe maneggiato con molta più cura.

Non lo so.
Io, leggendo, il bello non l’ho incontrato, ma forse loro sì. 

giovedì 28 giugno 2012

UNA PIOGGIA DI CURIOSITÀ

Ci sono momenti nei quali, in una maniera del tutto inspiegabile ed incomprensibile, l’atto di sfogliare il giornale o di scorrere le notizie lungo una pagina web assume le tinte acide di una frivolezza imperdonabile.

Assurdo; sarebbe davvero assurdo, in via del tutto teorica, perché suonerebbe come l’esatta inversione di quanto ci è sempre stato insegnato. Una ribellione immotivata.
Necessità di tenersi informati, curiosità da nutrire e coltivare affinché cresca ogni giorno di più, capacità di essere migliori conoscendo il mondo, anche passando per la carta stampata, quotidianamente stampata.

Se lo fai, se almeno provi a farlo, segui la strada giusta, riconosci le tue priorità, migliori il mondo rendendoti un cittadino consapevole e capace. Utile, fuori da ogni retorica.

E quante notizie ci sarebbero, poi, da leggere: la cronaca (il più delle volte nera, o almeno di un grigio molto scuro), la politica (fonte inesauribile di sfumature continue, di cavilli impalpabili, di illusioni grandiose  e di promesse mancate: un’epica moderna privata, però, di una fondazione etica). Non dimentichiamo poi la famosa terza pagina, la cultura, ricca di eventi, spettacoli, libri in uscita, programmazione tv. Ogni tanto qualche nuova scoperta scientifica e ogni giorno un nuovo dispositivo super tecnologico, “high tech”, a semplificare le nostre vite.
Alla fine, poi, un posto sicuro se l’è guadagnato anche la chiacchiera disimpegnata, il racconto dell’inciucio, la curiosità voyeuristica di spiare nella vita degli altri, necessariamente famosi certo: il gossip imperante che guadagna spazio, inchiostro e visibilità.

Niente da dire.
Come ogni mattina, niente da dire.
Perché se si celebra la curiosità, la libertà, non si può certo biasimare la molteplicità, l’arricchimento, l’idea che ogni lettore possa trovare qualcosa di interessante, qualcosa per lui.
L’ambizione più lodevole della democrazia.

E’ la dinamica, però, che non convince.

Perché poi capita di notare, infondo infondo alla pagina, una serie di foto, l’una accanto all’altra, per arricchire ancora di più la nostra mente di altre notizie, una sorta di piccoli doni per chi ha il coraggio e la voglia di arrivare fino in fondo. Beh, proprio laggiù, accanto ai calciatori riprodotti al museo delle cere e all’attore che smentisce la propria omosessualità baciando la moglie in pubblico (che poi c’è da chiedersi in questo caso dov’è la notizia e dove sarebbe la smentita) è davvero stridente trovare la foto di un signore sommerso dall’acqua che tiene stretto un ombrello:
“Bangladesh, un centinaio di morti per piogge torrenziali.”

Quel che è peggio?
Un’organizzazione grafica di questo tipo lascia a te, lettore, l’imbarazzo per aver temporeggiato sulla nuova fidanzata del calciatore o dell’attore, sugli eventi di costume e sulle curiosità; imbarazzato perché eri davvero sicuro di aver letto tutta la cronaca nella prima parte della pagina; imbarazzato, soprattutto, perché infondo lo sai bene anche tu che morire in Bangladesh, perché ha piovuto troppo non diventa quasi mai una notizia, rimane semplicemente un’informazione, destinata a perdersi tra le altre.
Tante altre.

Sempre se hai la voglia e il coraggio di arrivare infondo alla pagina però. 

mercoledì 27 giugno 2012

LA DEBOLEZZA DEL DITTATORE

Si può veramente ironizzare su ogni cosa? Esistono dei limiti oltre i quali si sfocia inevitabilmente nel cattivo gusto? Si può ridere del male, delle ingiustizie, della follia umana?

Questioni note, interrogativi comuni, domande retoriche.

Innanzitutto credo dipenda dalla disposizione d’animo con la quale ci si metta in ascolto, si decida di sentire e di vedere. Quando ascoltiamo l’altro, si sa, non sempre possiamo essere d’accordo con lui, non sempre impareremo qualcosa di nuovo da ciò che ci dirà, non sempre sarà una bella esperienza.

Ed è il semplice conoscere questa realtà che ce la renderà accettabile e, tutto sommato, piacevole.

Proprio con questa disposizione si guarda il mondo, si ascolta una canzone, si legge un libro, si vede un film: la soddisfazione non è affatto garantita e non può mai esserlo, essendo il frutto di una difficile combinazione tra gli occhi di chi guarda (o le orecchie di chi ascolta) e la volontà di chi comunica.

Così pensando sono andata all’appuntamento con Sacha Baron Cohen e il suo “Dittatore”, con il dubbio invadente, devo confessarlo, che la demenzialità non fosse proprio nelle mie corde, non fosse un occhiale con il quale io avrei mai potuto leggere la realtà.

Dopo qualche istante, però, ecco subito l’ingresso nella parodia, nella parodia della parodia, nell’assurdo che si fa narrazione: un dittatore demente, con progetti banali e poco ponderati, intento unicamente all’autocelebrazione personale. La tirannia, l’aspetto dispotico e sanguinario emergono solamente nel momento in cui l’altro (chiunque esso sia) mette in dubbio il mondo egocentrico alacremente creato e, spesso, immaginato.

[Ancora l’idea, inevitabile quando si descrivono i “cattivi”, che infondo non siano poi così cattivi o almeno la consolazione per la quale non siano poi così intelligenti e potenti.]

Molti i riferimenti divertenti ai despoti reali, quelli che hanno fatto paura al mondo e che realmente hanno dettato regole assurde alle quali non si è potuto o voluto per anni rispondere. Non mancano, ovviamente, gli interessi economici, gli accordi tra stati, i tradimenti politici.

Ma cosa succederebbe poi se, per un buffo caso del destino, un dittatore si ritrovasse privo della sua identità ufficiale, nel centro di quell’Occidente tanto odiato e combattuto? Cosa succederebbe se l’unica persona in grado di aiutarlo rappresenti (sempre in maniera caricaturale) tutti i valori ai quali ha dichiarato guerra negli anni?

Qui, il rischio della retorica, anche nella demenzialità, è abbastanza forte, con l’amore che migliora le persone, salva il mondo e ricostruisce equilibri ideali. E allora il dittatore che attraversa la crisi interiore, scopre di non essere mai stato amato dal suo popolo, scopre l’inganno e cerca dei sentimenti più autentici.

Per fortuna, il rischio di un agghiacciante lieto fine è sventato in extremis con un classico compromesso dove, come sempre, nessuno si scontenta, ma nessuno si accontenta.

“Si cambia tutto per non cambiare niente.” Scriveva Tomasi da Lampedusa
E sembra proprio che questo valga sia nella democrazia, quanto nella dittatura.

Che sia un rischio calcolato o una rassegnazione programmatica?





Si può ridere di ogni cosa?
Non lo so. Non so quanto c’entri il rispetto, quanto la paura.
Credo solo di avere il dovere di ridere, il dovere della leggerezza, in tempi in cui questa o non esiste o viene scambiata per una sciocchezza.

martedì 12 giugno 2012

OGGI, UN BAMBINO

Riapro il giornale, errore banale.

Apro il giornale, scorro nel web, politica, cronaca, crisi economica.
Ieri la Grecia che sta per cadere, oggi le banche spagnole da salvare.
Da noi la presunta lotta tra il tecnico ed il politico, l’eterno conflitto tra l’esperto serioso ed l’incapace simpaticone. Ammesso esista davvero un’alternativa.

Salto la cronaca.
Gli omicidi passionali mi hanno “mediaticamente” stancato, la violenza sulle donne che continua e cresce, gli uomini infelici, depressi, tutto in un ritmo perpetuo: prima l’ipotesi ciarlatana, la supposta spiegazione professionale e, infine, la condanna emotiva che ci dovrebbe riunire tutti in un forte abbraccio.
Sarà per questo che preferisco una certa distanza, una sana distanza.

Cosa c’è di nuovo oggi?

Unicef: 215 milioni di bambini coinvolti nel lavoro minorile in tutto il mondo. Più della metà svolge “attività a rischio” come schiavitù e sfruttamento sessuale.

Siria: Onu”Mai vista tanta brutalità. I bambini vengono torturati, mutilati e uccisi. Poi i soldati li mettono sui carri armati.”

Silenzio.
Perché se solo hai mantenuto un contatto, un piccolissimo canale di comunicazione con il tuo io bambino, con quello che sei stato, non puoi non rimanere in silenzio.
Il punto non è vedere i bambini intorno, sorridere loro e pensare a quanto sono carini, giocherelloni e spensierati; il punto non è neppure, per quanto efficace probabilmente potrebbe essere, avere dei figli propri ed immaginare per loro qualcosa in meno di un’eterna e smisurata felicità.
(Chiedo scusa qui per l’evidente luogo comune, utilizzato soprattutto per enfasi, piuttosto che per profonda convinzione)

Ad ogni modo non credo sia questo il punto, non credo sia questo il punto di vista dal quale guardare a questa realtà.
I bambini non hanno la loro essenza nella bellezza del guardarli, nella tenerezza delle loro parole, nell’illusione delle loro piccole anime.

L’innocenza, simbolo spesso travisato: perché l’innocenza è di chi non ha colpa, non di chi non capisce cosa sia la colpa. E i bambini, con una logica a volte molto più lucida della nostra, la capiscono bene.

Loro sono persone, persone in potenza: persone che vivono, che guardano, che capiscono. Nel colpire loro, non colpiamo chi non può comprendere, solo chi non può reagire; noi stiamo cambiando il modo in cui quelle “piccole persone” guarderanno il mondo d’ora in poi.
Lo stiamo cambiando per sempre.

“Tutti i grandi sono stati bambini una volta.
(Ma pochi di essi se ne ricordano.)”            Antoine de Saint Exupéry

Questi bambini se ne ricorderanno, e anche se fingeranno di aver dimenticato, si domanderanno per tutta la vita, nelle loro anime rotte, cosa poteva poi significare infondo essere felici.

Silenzio.

venerdì 1 giugno 2012

CERIMONIALE

2 Giugno o non 2 Giugno? Questo è il problema…
Già perché ormai siamo talmente arrabbiati, stanchi, delusi dall’Italia che ci hanno cucita addosso e dalla quale difficilmente potremo liberarci (almeno in breve tempo), che ad andarci di mezzo è stata proprio la festa, forse, più importante di tutte. (Oggi più che mai)

Quanto c’entra veramente il terremoto in Emilia?
Quanto ne sa il terremoto della condizione del nostro paese?
[Effettivamente ha avuto un tempismo impeccabile, lui, giusto in tempo per rinfrancare una rabbia già dilagante. E per uccidere delle persone certo…ma in questi casi c’è sempre da chiedersi, con grande onestà, chi le abbia davvero uccise.]

C’entra il terremoto, se provoca, suo malgrado, un’ulteriore accisa sui carburanti.
C’entra perché per fare una celebrazione, per organizzare una parata delle più prestigiose forze armate del paese ci vogliono soldi. Gli stessi soldi del carburante.

Soldi in “tempo di crisi”.
Soldi in “tempo di terremoto”. (o in “terra di terremoti”)

Ma il valore simbolico? La necessità di ribadire e ricordare? La voglia di farlo.
La necessità di riconoscersi in qualcosa di più grande che ci unisce; la volontà di fondare un cosmopolitismo maggiormente consapevole e saldo. La possibilità di trovare un ruolo in Europa, nel mondo.

L’italiano cha ancora s’ha da fare.

Certo, se guardi da vicino (vicino al tuo estratto conto, vicino al modulo di disoccupazione, vicino a tuo figlio che non potrà godere del termine emancipazione, e vicino alle macerie della tua casa o del tuo capannone, costruiti prima e costruiti male), beh allora del valore simbolico, del messaggio di riconoscimento e coesione nazionale te ne importa ben poco.
La lungimiranza non è dote per disgraziati, ma è proprio nella disgrazia che c’è più spazio per vedere oltre, come davanti ad una “tabula rasa” l’orizzonte diventa inevitabilmente più vicino, più possibile. (Paradossale…)

Certo però, se guardi da lontano, se guardo da lontano vedo sempre la stessa cosa, lo stesso antico meccanismo: la “guerra dei poveri”. Illusi di poter scegliere, illusi di poter anche solo penetrare le ragioni profonde che muovono il mercato; illusi che l’alternativa non possa essere altro che tra l’accisa del carburante e la parata del 2 Giugno.

L’illusione crea i mostri, l’illusione di chi non può capire, l’illusione di chi ci ha detto che ci si deve rassegnare.

Sempre questione di illusione; o semplicemente di prospettive.
  

venerdì 11 maggio 2012

EQUA ITALIA


L’equa Italia, l’Italia equa. Assurdo.
Assurdo chiamare così l’agenzia di riscossione tributi, anzi affascinante paradosso.

E’ un paradosso e tutti avremmo dovuto saperlo, da sempre.
Chi ha creduto nell’equità, chi ha creduto semplicemente alla possibilità della giustizia proporzionalmente distribuita, ha sperato troppo.
E non c’è nessuna amarezza in questo.

Assurdo ancora di più in Italia (fuori da ogni tipo di demagogia).
Solo che è assurdo pensare che un popolo di furbi per definizione (e probabilmente anche per vocazione), di persone perbene soprattutto per quel che gli interessa, riuscisse ad avvicinarsi almeno un po’ all’idea di equità.

Ciascuno di noi la rivendica, ma ciascuno di noi se ne discosterebbe volentieri se venisse a suo vantaggio. [ E’ il difetto più grande di questo concetto. Un cane che si morde la coda.]

Evidentemente però, sentimentali come siamo, ci avevamo creduto almeno un po’: almeno quel tanto che basta ora per indignarsi davanti ai suicidi, alle proteste di piazza, alle uova.
Almeno quel tanto che basta per spaventarci davanti al terrorismo, ai dirigenti gambizzati, all’ombra delle BR e di un’Italia che sembrava lontana secoli da qui.

Fuori da ogni demagogia, spero.
Perché il politico parla di giustizia e, al massimo, immagina un compromesso.
Il prete parla di giustizia, guarda il cielo e pensa alle promesse.

E noi ancora a cercarla, a pretenderla, spesso a pagarla.
Come andar per campi a cercare un quadrifoglio: non sai se c’è, ma sai quanto comunque sarebbe difficile trovarlo.

Che dipenda dal sistema economico o dall’equilibrio politico, che dipenda dall’inconsistenza dell’ideale o dall’irriducibile inumanità dell’uomo, non è il momento di domandarselo.
Comunque, è una questione più grande di noi, più grande del vivere quotidiano.

Più grande delle lacrime, delle tensioni, delle cartelle esattoriali; più grande delle minacce delle banche, della mensa a scuola negata ai bambini, del welfare ridotto all’osso; più grande dei ragazzi che hanno tanta voglia e nessun lavoro, di quelli che la speranza l’hanno ormai persa, dei grandi, troppo grandi per non avere più un lavoro; più grande del cappio che in un modo o nell’altro abbiamo imparato a costruirci.

Questo accade, mentre si cerca l’ equità, in giro per l’Italia, in giro per il mondo.

mercoledì 9 maggio 2012

NON TEMERE


                                                                                                             - Per tutte le donne -                                                                  

Non temere per la mia felicità.

Te lo ripetevo sempre e mi coccolavo nell’idea della tua preoccupazione; scusami se ne ho goduto appena, mentre continuavo a ripetermi che solo chi ti ama davvero si preoccupa perché tu sia felice.

E gli anni passavano lenti ed inquieti, cambiavano gli sfondi, i paesaggi: come ogni vita, indecisa tra la sicurezza di ciò che c’è e la noia di ciò che sembra non cambiare proprio mai.
Banale quotidianità, ecco tutto.

Ovvia anche la mia irrequietezza, la voglia di cambiare qualcosa, piccoli accorgimenti per ritrovare l’entusiasmo. Scusami se ti ho ferito, ma non ti avrei mai cambiato. Solo che le donne amano disegnare gli ambienti, costruire i sapori, decorare la sostanza, lo sai.
Avresti dovuto saperlo, esserne certo.

Pensavo ai bambini, al futuro, a quanto di nuovo sarebbe arrivato e non ne avevo paura.
Non pensavo non avessi capito, non pensavo fosse possibile non capire.

“Non temere per la mia felicità!” dicevo, e non capivo.
L’unica cosa che non ho mai capito era proprio questa: non temevi che non fossi felice, ma che lo fossi troppo, che lo fossi senza di te, che ti estromettessi così di botto da me.
Tu che solo eri la mia felicità, io che non sapevo di essere una semplice proprietà.
Timore immotivato. Pensavo.
E pensavo bastasse dirtelo, rassicurarti.

Ma era già troppo tardi: io continuavo la mia vita con l’uomo che ricordavo di aver incontrato, tu serbavi rancore alla donna che credevi di non riconoscere più.

Non temere.
Solo questo era rimasto, e lo dicevo a me stessa.
Non temere, attaccati all’idea che hai, al ricordo di lui e nutrilo affinché esista ancora.
Se ci credi capirà, lo sentirà; deve esistere un modo per ritrovare un contatto.

E i giorni passavano lenti ed inquieti, sempre più inquieti. Non c’era più spazio per la noia, né per la voglia. Le pareti del mondo diventavano sempre più strette, soffocavano lo sguardo.
Rimaneva una casa, una preoccupazione incessante e la sensazione di qualcosa di rotto.

Rimaneva il sospetto, il controllo, la rabbia che offende.
Quando ancora mi era concessa l’indignazione. Poi solo il dubbio.

Quante volte ti ho chiesto di credermi? Quante di perdonarmi per qualcosa che non avevo commesso?Ed ora cosa resta?

Che io sia in un letto d’ospedale, in una casa famiglia o in una fredda lapide, non temere.
A te tocca ora domandarti cosa è successo, a te fare i conti con la consapevolezza;se un giorno riuscirai di nuovo a pensare a me, non temere.
Solo ora ho capito.

venerdì 27 aprile 2012

UN ALTRO VIAGGIO


Un altro viaggio a Roma, un altro racconto; per la precisione, una serie di racconti.
Scene di vita varia, della più varia e sempre un po’ paradossale. (Allen’s quid)
E mentre sento scorrere le vicende penso e cerco il filo, come sempre.

Mi piace pensare che quelli proposti non siano altro che una serie di racconti sulla “privatezza”, voluta, ricercata, persa o violata. Il privato, necessariamente ed indissolubilmente legato al suo opposto, costretto a cercare in continuazione un suo posto, un equilibrio, magari un accordo.

Credo sia una storia “vecchia quanto il mondo”, o almeno quanto quello moderno e civilizzato.

Ma oggi ancora di più, oggi trovare un equilibrio è ancora più complesso; e allora il racconto diviene improvvisamente un tema di attualità, una critica sociale (certo di gran moda, spesso demagogica).

Il modo di raccontarcelo qui però è delicato, elegante e divertente.

Ti accorgi subito del signore sconosciuto, anonimo per convinzione e mediocre per necessità che, improvvisamente ed inspiegabilmente, una mattina diventa famoso; diviene oggetto dell’interesse altrui, un interesse che ognuno dimostra secondo le proprie attitudini (come succede sempre).
Allora entra in scena l’assurdo, il morboso, il voyeuristico.
Non è più mondo dello spettacolo, non è più nemmeno celebrità: è iniziato il più estremo dei reality, quando la realtà vera costituisce l’oggetto di una curiosità inspiegabile.
[ Morbosa reinterpretazione delle myricae. ]
E lui che prova a resistere, che si stanca della celebrità, che si indegna davanti al non senso e, proprio sul finire, capitola al vezzo, quando ormai è troppo tardi per goderne.
Eroe contemporaneo. Godimento da privazione. Isteria.
Parabola di un uomo perbene, preso, confuso e gettato via.


E poi, di storie ce ne sono altre…

C’è il padre di famiglia, l’uomo saldo e genuino.
Il perfetto affresco del becchino che, per naturale contrappasso, sprigiona una gioia e una serenità semplice ed autentica. [ Sarà vero che chi fa pace con la morte scopre la felicità nel vivere? ]
Anche a lui, però, la vita riserva una fascinazione pericolosa: la possibilità reale di cambiarla la propria esistenza.
Suo unico mezzo sarà la voce, il bel canto.
Anche lui, però, deve fare i conti con la propria dimensione privata, forte ed incapace di scendere a compromessi con quella pubblica, meglio con il pubblico. C’è la fa, realizza un progetto, cambia la sua vita. Ma, infondo, è costretto anche lui ad accettare il compromesso: incapace di vincere l’ansia da palcoscenico, preferisce portare su quello stesso palcoscenico la sua vita privata, intima direi.
Cantando sotto la pioggia, cantando sotto la doccia.
 [ Ridi pagliaccio: un monito per tutti. ]


C’è anche la giovane attrice, aspirante intellettuale ed incline alle semplici fascinazioni.

Si innamora di tutto, ogni cosa la scuote e la rapisce, profluvi di citazioni dotte (tutte però di impronta romantica, un continuo “Sturm und Drang” diciamo).
Si innamora di tutti, fa innamorare tutti di sé.
Anche lei, però, a ben guardare, vive nella sfumatura, nell’accordo irraggiungibile con il proprio mondo interno; incapace di scindere fino in fondo, sembra portare tutta se stessa sul piatto, senza paura. In realtà, come sempre accade, non fa altro che riproporre, in un canovaccio continuo, un personaggio a cui tanto è affezionata e che tanto affascina chi l’ascolta.
Il segreto sta nel credere profondamente di essere chi vorremmo essere.
E funziona sempre…Tanto che un giovane architetto combatte contro un sarcastico alterego pur di amarla, soprattutto nella sua confusione.
Sarà stato un altro amante del controllo che capitola davanti a tanto incontenibile fluire disordinato.   

Man mano, passando a racconti meno sottili o semplicemente meno paradossali, ecco la storia degli sposini di provincia puri e ligi, che incontrano la “perversione” della celebrità e la “spontaneità” della corporeità. Se la storia è abbastanza ovvia, la riflessione su di loro scorre impalpabile.

C’è dell’altro certo, ma questo è ciò che resta, perlomeno dentro me: una sensazione gradevole, qualche sorriso amaro e la città più bella del mondo.


venerdì 20 aprile 2012

GRAZIE

Oggi mi sono imbattuta in uno di quei bigliettini stampati con i quali si viene ringraziati per aver partecipato al cordoglio di qualcun altro. Bruttini eh?! Bianchi, con quelle poche parole stampate in un carattere sobrio, le due striscioline nere sull’angolo, che traspaiono già dalla busta con la loro gravità.

Attimo di silenzio fisiologico.
Senso di oppressione inspiegabile ma delicato.
Meglio, quella sottile sensazione di non comprendere bene.
Silenzio riflessivo.

Mi sono chiesta come mai avessimo ideato questa forma di ringraziamento, questa ennesima formalità con la quale si chiude ufficialmente tutta la pratica del “trapasso” ( che modo violento per definire la morte eh?!).

Penso. Penso che infondo non voglio parlare di morte.
In realtà sto pensando proprio alla vita, a noi, all’umanità.

[ C’è stato un periodo nel quale ringraziavo sempre tutti per ogni cosa: non era manierismo, era pessimismo. Strisciavo nella vita silenziosamente, in modo da disturbare il meno possibile.
Per quello che potevo evitavo ogni rumore dato dalla semplice presenza e, dove non potevo arrivare, ringraziavo a testa bassa, ma di cuore. ]

Ringraziare per aver provato un sentimento di partecipazione e di pietà (pietas) nei nostri confronti. Non è strano? Ti ringrazio, e ti invio anche un biglietto, perché io ho subito una perdita (come si dice spesso, tergiversando) e tu hai pensato di starmi accanto in qualche maniera.

Una volta mi sono sentita dire “ti amo” e, così sul momento, ho risposto “grazie”.
Ho sentito stridere la mia risposta: semplicemente non era “appropriata”.

Non si può ringraziare qualcuno per i sentimenti che prova, non si deve. Non è un merito provare dei sentimenti, di qualsiasi natura essi siano, se lo fosse non sarebbero sentimenti ma riflessioni.
[ Lasciamo intatta almeno questa libertà. ]

E’ un’invasione di campo, infondo.
Quale frustrazione per chi si sente ringraziare: se ha provato un sentimento sincero, autentico si sentirà svuotato, derubato, violato nel suo mondo interiore, intimamente svelato.

Ai sentimenti bisogna credere sulla parola, meglio sull’azione.
Spesso basta semplicemente lo sguardo.

Interpretare, ragionare, pontificare sul sentire altrui è pericolo, forse addirittura ingiusto.
Lo stesso vale anche per un semplice “grazie”.

Se, invece, stiamo parlando semplicemente di “maniera”, beh allora è tutto un altro pensare.

6. PINNA D'INGRANDIMENTO

Mentre scandisce le lettere come fossero note di una melodia favolosa, il nostro eroe nuota con eleganza, formando dei piccoli cerchietti sulla superficie dell’acqua quasi ad accompagnare, con il suo incedere concentrico, una musica che risuona, però, solo nella sua testolina.  
“ Condividere…è dividere qualcosa con qualcun’ altro…Però - mentre dice così, con guizzo repentino della pinna sale fino in superficie e sembra fissare un punto oltre le spalle del bambino -  perché avreste inventato questa parola così bella quando già si poteva dire in un altro modo?!?            O forse no?!          Beh insomma…
Io divido il mio lago, il mio spazio con tanti pesci; divido il mio pranzo, i vermetti che ci sono nel lago, con tutti gli altri inquilini; tu dividi un panino con il compagno di banco; i signori che si festeggiano oggi probabilmente avranno diviso una birra con gli amici, una fetta di torta con la mamma; tanti mammiferi avranno diviso la benzina della macchina per andare al mare le domeniche d’estate ( e poi magari saranno andati sugli scogli ad importunare la tranquillità dei poveri granchietti che vivono lì… figurarsi che i mammiferi non inizino a rendersi molesti!!! Soprattutto con tutto quel sole: si sa che il caldo finisce sempre per rendervi un po’ pazzerelli…Non avete mica sempre la testa bagnata voi!? Il vostro cervello rischia di friggere quando è troppo caldo!!![1]).
Quello che voglio dire, però, è che tutto o quasi si può dividere, e mille volte ti sarai trovato anche tu, piccolino come sei, a dividere, anche solo la realtà, con un altro. Poco fa, invece, tu hai detto che quando due si vogliono bene, condividono…e allora ho pensato che fosse qualcosa di diverso. O sbaglio?
Penso infatti che, nel caso in cui due mammiferi decidano di sposarsi, la vera questione non è tanto nella decisione di dividere il mutuo della casa, le bollette, i turni per andare a prendere il piccoletto in piscina ( tutte queste conoscenze sono il frutto di anni di “ attività di spionaggio a pelo d’acqua” nel mio laghetto!!!)… quando ti sposi, sempre se ho ben intuito quello che dicevi, la decisione che si prende è quella di condividere la vita. Certo pure gli impegni e i doveri fanno parte della vita! Però mi sa che si vive pure quando non hai niente da fare, si vive pure quando stai facendo colazione la mattina e non sei affatto di buon umore…la vita molto spesso è lì, tra gli aneddoti da raccontare!
…..e poi sai qual è, secondo me, il momento in cui vivi di più? Quando la sera vai a letto (o sul fondo del laghetto), poggi la testa sul cuscino (o su una comoda alga) e sei stanco e arrabbiato, perché la giornata non è andata proprio come avresti voluto. In quel momento chiudi gli occhi e, così, chiudi pure tutto il mondo che ti ha deluso fuori. Quel momento è un momento della tua vita! E allora, quando decidi di condividere la vita con qualcuno, stai decidendo di condividere proprio quel momento, decidi di parlare e confrontarti anche quando non vorresti, decidi di sperare in una parola di consolazione, in una coccola anche se non sempre arriverà. Decidi, allora, anche di accettare delle piccole delusioni, di prenderti l’impegno di sopportare, anche quando la testa sul cuscino la vorrebbe affondare l’altro! Insomma, ci potrebbero essere infiniti momenti come questi da raccontare, però credo che tutto si possa riassumere dicendo che se decidi di condividere, decidi di non chiudere fuori dalla porta tutto il mondo…decidi che quel qualcuno possa restare, anche e soprattutto quando lì dentro non c’è più nessuno.
Il piccolo Andrea rimane senza parole, letteralmente sbigottito davanti al bel discorso che, non si sa come, era riuscito a pronunciare il suo nuovo amico. Nella sua testa ancora girano vorticosamente tutte quelle riflessioni e i suoi occhietti, non riuscendo a liberarsi dalla dittatura dei suoi pensieri, rimangono fissi, solleticati unicamente dai tenui riflessi dell’acqua. Quella stessa acqua che sta sta accogliendo e proteggendo quel piccolo pesciolino che ha capito tutto.
Sono bastati pochi secondi ad Andrea per sapere di non poter comprendere fino infondo quello che Trotsky aveva detto; subito, infatti, mentre ascoltava con sgomento il suo amico, era riaffiorata quella sensazione di disagio sulla pelle. La prova sempre quando parla con la mamma o con il papà delle “cose da grandi”.
“Gli adulti – inizia così a parlare fissando ancora l’acqua, senza però ricercare lo sguardo del pesciolino - non capiscono proprio quanto sia difficile per noi bambini starli a sentire quando parlano delle “cose da grandi”. Che poi ti avvertono subito…ti mettono su una sedia, ti dico di star fermo e non giocare, perché ora bisogna parlare di cose SERIE ( i grandi iniziano sempre dicendo che devono parlarti di cose serie [!!!???!!!], con quella faccia da catastrofe imminente unita all’ aplomb  da educatore da riformatorio). Quando, e solo quando, ti sei mostrato abbastanza serio e anche un po’ triste, allora iniziano con il discorso del giorno al quale, però, tu devi assistere in rigoroso silenzio, facendo cenno con la testa, se possibile, di tanto in tanto. Il silenzio della vittima, in quei momenti, non è solo richiesto dai genitori, ma anche fortemente consigliato. Avete mai provato, infatti, ad interrompere quel flusso di noia ed incomprensione???
Beh, vi auguro di no! Perché se lo avete fatto, saprete bene che questo rappresenta per la mamma o il papà un sintomo di scarso interesse o, ancora meglio, il segno manifesto della volontà di eludere il punto della discussione ( che è peggio!!! )…E se poi, continuate nella vostra intenzione, dicendo che non avete ben capito e vorreste delle spiegazioni, beh allora siete in un grosso pasticcio!!! Dopo la prima domanda che ti lasciano fare, convinti di poter risolvere il dubbio in un paio di minuti, iniziano ad innervosirsi, si guardano tra di loro e poi, eccoli passare alla fase 2 – i discorsi da grandi!!!! 
Perché se parli con mamma e papà, o con qualsiasi altro “grande”, prima proverà a spiegarti un qualsiasi problema in maniera incomprensibile, usando esempi che non c’entrano niente, parlando di amichetti immaginari e gesticolando decisamente troppo; poi, quando le tue domande si faranno più insistenti, ( che poi tutto il discorso probabilmente non ti interessava dall’inizio, ma ora ne fai un problema vero, visto che era tanto importante che lo capissi!!!) eccoli che si raddrizzano la schiena, si aggiustano il maglioncino e poi, quasi balbettando, ti guardano con improvviso affetto:
“ Capisco le tue domande amore mio ed è bello che tu ti ponga già tutti questi problemi! Sei molto intelligente e mamma è fiera di te! Però tu sei ancora piccolino e questi argomenti non vanno ancora bene per te, diciamo che sono “da grandi”, e quando sarai più grande magari ne riparliamo[2]… Per ora, però, ciò che è importante che tu capisca è che……… …………. ………”
Ed ecco che in un attimo ricomincia con quel noiosissimo discorso, che tra l’altro decide di riprendere dall’inizio e, a questo punto, senza alcuna possibilità di interruzione!!! [ DRAMMATICO!!! ]”
Seguono alcuni minuti di silenzio nei quali Andrea continua a fissare un punto non identificato sulla superficie dell’acqua, mentre il piccolo Trotsky muove lento la sua pinna, sembra pensoso e guarda con occhi dispiaciuti il suo amico.
Andrea ha capito, in un solo istante, che il pesciolino con cui ha condiviso tanti pensieri e tanti dubbi quella mattina, in realtà, si sta rivelando molto saggio; quel piccoletto sta facendo quei ragionamenti che solo i grandi (mammiferi o non) possono fare. E lui invece? Beh, lui ha provato la sensazione di sempre…quando ti sembra di capire ciò che ti dicono, anzi sei sicuro di aver capito bene, ma poi è come se quelle parole, quei discorsi fossero tanto leggeri da non riuscire proprio a tenerli in testa…volano subito via. Per un attimo, però, le sensazioni le hai sentite e le hai pure capite!!! E quelle sensazioni ti rimangono sulla pelle, anche se sei piccolino e non sai cosa sarà la vita. Questo i grandi non lo sanno e spesso non se lo immaginano neppure. Non capiscono mai, loro, che anche se alcuni argomenti sembrano lontani da noi, li ascoltiamo, ( anche quando vengono bisbigliati mentre guardiamo i cartoni animati!) e la sensazione che proviamo, spesso, è la stessa sensazione che ci trasmettono loro quando ci raccontano quello che vogliono farci capire. Magari non capiamo la politica o l’economia, il conflitto d’interessi o la speculazione finanziaria, ma certo sentiamo quando il papà e la mamma sono preoccupati per questo…lo sentiamo forte anche se loro pensano di nascondercelo!
Andrea, però, sa che con il suo amico oggi non è andata proprio così…non ha provato lo stesso disagio davanti ai suoi discorsi, non ha provato lo stesso senso di esclusione, di inadeguatezza. Questa volta, invece, ha sentito una vera condivisione di pensieri… proprio come raccontavano poco fa, quello che capita quando ascolti ed impari, quando decidi di stare accanto a qualcuno, a prescindere dal suo umore, dai problemi, e, a volte, anche da quello che dice e che non vorremmo sentire. Ora guarda il suo amico acquatico e prova soddisfazione per il solo fatto di essergli amico! Sta diventando un pesce adulto, è lontano da casa e dalla sua famiglia… starà provando tanta paura! Ma sta anche sperimentando la fiducia, la speranza, la condivisione. Ora si che è un pesce pronto per la grandezza del mare!!!
Tutti questi pensieri, tutta la calda intimità di quel momento, il tepore di un’amicizia sincera che stava nascendo vengono, però, bruscamente interrotti: in un attimo una luce accecante invade quel piccolo laghetto, spaventando Trotsky e costringendolo a nascondersi sul fondo, con la pinna ben attaccata al marmo freddo. Trema il piccoletto, perché ancora una volta non sa e non riesce neppure ad immaginare cosa sta succedendo; trema, però, anche perché infondo sa che è arrivato il momento di salutare il suo nuovo amico, quest’ultima briciola di casa, quest’ultima coccola.
Andrea, invece, riemerge dai suoi pensieri in tutta fretta, incrocia gli occhi spaventati del pesciolino con aria rassicurante e volge il viso verso quella luce, che lo illumina in un istante e scintilla tra i suoi capelli rossicci. Bastano pochi secondi affinché una folla agitata invada quel piccolo angolo di serenità. Ed è subito un via vai di cappellini, stole, tacchi e cravatte. I colori, arroganti e vispi, occupano tutta l’aria intorno, tanto da far impallidire il rosso brillante del pesciolino spaventato. E poi il profumo…tanto piacevole quanto invadente!
Se finora nessuno si è accorto di me, non se ne accorgeranno certo ora… tutti presi come sono dalla festa che sta per iniziare! – pensa Trotsky cercando di tranquillizzarsi, ma rimanendo fermo fermo sul fondo della piscinetta: è immobile, la pinna paralizzata in modo da non creare neanche il minimo movimento nell’acqua. Servono solo pochi istanti, però, per veder apparire le prime dita “mammifere” sulla superficie brillante: una carezza distratta, quel tanto che basta per bagnarsi appena, e poi scomparire…
Mannaggia! – pensa il pesce - mi sono dimenticato di domandare al mio amico perché fanno questo!!! Anche a casa dei nonni mammiferi si farà così??? -----------------------------------------------------------------------------
Ora stai tranquillo Trotsky, vedrai che non succederà niente! Hai la fortuna sfacciata di assistere ad una grande festa, pure senza essere stato invitato!!! In ogni caso, poi…qualsiasi cosa succeda…beh si, ora hai un amico e puoi star sicuro che lui non permetterà a nessuno di farti del male!!! ---------------------------
------------- Speriamo comunque non ci siano dei pescatori tra gli invitati!!!!
“Andrea, amore cosa stai facendo qui? E’ un bel po’ che ti cerco! Dai vieni con mamma e andiamo a sederci che sta per iniziare, il papà è fuori con lo sposo ma tra un po’ ci raggiunge!!!Allora sei pronto per le fedi? Ti ricordi tutto quello che devi fare? Vieni qui che ti aggiusto il papillon…è tutto storto!!! Quanto sei bello tesoro, sembri proprio un ometto!”
E così iniziò quella giornata; una giornata di festa per tutti…per chi aveva deciso di darsi delle risposte, di farsi delle promesse, ma anche per chi, come i nostri piccoli amici, aveva solamente tentato di porsi delle domande. Quel giorno fu un giorno davvero magico, uno di quelli in cui può capitare proprio di tutto, persino che un pesciolino di lago finisca per spiegarti un pezzettino di vita! Per tutta la durata della cerimonia, però, Andrea non smise di rimanere assorto nei suoi pensieri; la mamma lo guardava dall’alto dei suoi tacchi a spillo con un po’ di perplessità, perché si sa che quando dici ad un bambino di stare zitto e buono, devi aspettarti che prima o poi la noia esploda…ma questa volta no, stava seduto lì, accanto a lei, piccolo piccolo nelle sue spallucce, ma così serio e pensieroso.
Andrea pensava al suo amico, alla paura che aveva letto nei suoi occhietti, alle mille spiegazioni date affinché capisse cosa stesse succedendo…chissà se si sta godendo la festa? E poi non ha avuto neppure il tempo di salutarlo come si deve…
Sullo sfondo dei suoi pensieri, però, la cerimonia andò avanti, il paggetto fece il suo dovere, [suscitando grande tenerezza tra tutti gli astanti – che poi è da ritenersi il principale ruolo dei paggetti in una cerimonia!] e gli sposi non smentirono le aspettative; seguirono balli, canti, risate a non finire e…la torta, la grande protagonista!

E poi, promessa di ogni favola che si rispetti, una vita di gioia ed amore!!!
[AVVISO AL LETTORE: si si, proprio a te!!! Nonostante l’apparente fase di stallo, l’autore ti invita a fare un ultimo sforzo e andare oltre ( nella vita come nella storia )…dai! Non è mica finita qui!!!]







Un’amicizia, infatti, è sempre un’amicizia e non potevamo certo lasciarvi con il dubbio che a volte le strade si separano, le cose cambiano ( gli impegni, la routine, lo stress, la crisi economica [ che c’entra sempre!!!]) o che Andrea e Trostsky avessero interrotto così la loro conoscenza?! E poi quante perplessità sul precariato che avrebbe attanagliato un pesce rosso in un’ acquasantiera! I sacerdoti, a volte, potrebbero dimenticare il sentimento della carità quando si tratta di un pesce, nella casa di Dio per giunta…per non parlare, poi, delle perpetue!!!  Beh, comunque, bando ai convenevoli: vi basti sapere che Andrea pensò molto al suo amico e al suo futuro e così, dopo tante peripezie e tante occasioni sfumate,[3] … … …
“ Mpah Mpah … … … che immensità tutta qui, ora, davanti ai miei occhi! Che freschezza!!! Non avrei mai pensato che il mondo fosse così grande…anche per un piccoletto come me!!! Ora si che tocca a me, ora posso conoscere e costruire anche la mia libertà!



Un MARE di saluti da Trotsky e Andrea.









[1] Da qui probabilmente la spiegazione dell’inveterata tradizione per cui i pesci non portano mai il cappello; durante gli anni ’90 infatti, a seguito del boom economico, dell’amore per il lusso, dell’alta moda, in particolar modo a Milano si diffuse la convinzione secondo la quale, perfino il mondo acquatico rispondesse ai canoni dettati dalla moda. Ci si immaginarono pescioline atteggiarsi a top model, pinne ricoperte di strass e bikini squamati. Fu solo, però, con l’inizio del nuovo millennio che alcuni etologi di fama internazionale resero pubblici i loro dossier, fino a quel momento rimasti segreti, e la verità colpì tutti nel suo splendore: i pesci, così come tutti gli altri animali acquatici e terrestri, se ne infischiano altamente di tutto ciò che noi riteniamo fondamentale ed imprescindibile, come la politica, l’arte, la letteratura e la moda. 
[2] L’autore ci tiene in questa sede a sottolineare la sensibilità dimostrata dalla mamma del nostro Andrea in questa situazione; molto spesso, infatti, questo tipo di discussioni si concludono non già con la promessa di un seppur futuro approfondimento del tema, quanto con la celeberrima asserzione genitoriale “un giorno, quando sarai più grande, capirai…”.
Nota a Libera Fruizione di ogni Piccoletto: nel caso in cui la figura genitoriale di riferimento (mamma/papà, con possibilità di delega a nonno/nonna) propone questo tipo di risposta, avete tutto il diritto di arrabbiarvi e sottolineare come non sia sufficientemente chiarito né il momento in cui queste competenze verranno acquisite, né se la comprensione del tema implichi necessariamente l’accordo con le posizioni sostenute dai genitori. Alcuni esempi: Mamma, a che età si diventa abbastanza grandi per capire questo? E poi lo capirò da solo oppure dovrò ripensarci e ricordarmi di oggi? Ma dici che quando sarò grande capirò che devo fare quello che dici tu o potrò pensarla diversamente?
[3] E’ doveroso qui ricordare che il nostro eroe acquatico, forte dell’appoggio emotivo ed economico del piccolo Andrea, ha subito il fascino del dorato mondo dello spettacolo: numerosi, perciò, sono i casting ai quali ha preso parte, senza, però, riuscire ad ottenere il successo tanto agognato. Da curriculum possiamo, tuttavia, ricordare le partecipazioni, con ruoli marginali o di comparsa in “Nemo”, “La sirenetta” ( nell’edizione restaurata ), “Ponyo e la scogliera”. Sfumata, invece, la partecipazione a “Shark tales” a causa di un dissidio maturato sul set con uno degli squali protagonisti.