- Per tutte le donne -
Non
temere per la mia felicità.
Te
lo ripetevo sempre e mi coccolavo nell’idea della tua preoccupazione; scusami
se ne ho goduto appena, mentre continuavo a ripetermi che solo chi ti ama
davvero si preoccupa perché tu sia felice.
E
gli anni passavano lenti ed inquieti, cambiavano gli sfondi, i paesaggi: come ogni
vita, indecisa tra la sicurezza di ciò che c’è e la noia di ciò che sembra non
cambiare proprio mai.
Banale
quotidianità, ecco tutto.
Ovvia
anche la mia irrequietezza, la voglia di cambiare qualcosa, piccoli
accorgimenti per ritrovare l’entusiasmo. Scusami se ti ho ferito, ma non ti
avrei mai cambiato. Solo che le donne amano disegnare gli ambienti, costruire i
sapori, decorare la sostanza, lo sai.
Avresti
dovuto saperlo, esserne certo.
Pensavo
ai bambini, al futuro, a quanto di nuovo sarebbe arrivato e non ne avevo paura.
Non
pensavo non avessi capito, non pensavo fosse possibile non capire.
“Non
temere per la mia felicità!” dicevo, e non capivo.
L’unica
cosa che non ho mai capito era proprio questa: non temevi che non fossi felice,
ma che lo fossi troppo, che lo fossi senza di te, che ti estromettessi così di
botto da me.
Tu
che solo eri la mia felicità, io che non sapevo di essere una semplice
proprietà.
Timore
immotivato. Pensavo.
E
pensavo bastasse dirtelo, rassicurarti.
Ma
era già troppo tardi: io continuavo la mia vita con l’uomo che ricordavo di
aver incontrato, tu serbavi rancore alla donna che credevi di non riconoscere
più.
Non
temere.
Solo
questo era rimasto, e lo dicevo a me stessa.
Non
temere, attaccati all’idea che hai, al ricordo di lui e nutrilo affinché esista
ancora.
Se
ci credi capirà, lo sentirà; deve esistere un modo per ritrovare un contatto.
E
i giorni passavano lenti ed inquieti, sempre più inquieti. Non c’era più spazio
per la noia, né per la voglia. Le pareti del mondo diventavano sempre più
strette, soffocavano lo sguardo.
Rimaneva
una casa, una preoccupazione incessante e la sensazione di qualcosa di rotto.
Rimaneva
il sospetto, il controllo, la rabbia che offende.
Quando
ancora mi era concessa l’indignazione. Poi solo il dubbio.
Quante
volte ti ho chiesto di credermi? Quante di perdonarmi per qualcosa che non
avevo commesso?Ed ora cosa resta?
Che
io sia in un letto d’ospedale, in una casa famiglia o in una fredda lapide, non
temere.
A
te tocca ora domandarti cosa è successo, a te fare i conti con la
consapevolezza;se un giorno riuscirai di nuovo a pensare a me, non temere.
Solo
ora ho capito.
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