“E’ notte fonda, io mi trovo in giro, camminando in modo convulso tra le strade poco illuminate lontane dal centro. Sono arrabbiata, infuriata, dagli occhi scendono delle piccole gocce salate piene di livore; non si possono chiamare lacrime. Il passo è lento ma senza alcuna regolarità.
Rovistando nelle tasche trovo qualcosa…Guardo la mia mano, metto a fuoco, è un coltello.
Poi il buio: non so come sono arrivata a casa, non so cosa ho pensato, se ho pensato. I ricordi ritornano solo a flash, come lampi che disegnano il mio corpo sopra il suo, movimenti strappati, la luce è intensa, le mie mani insanguinate, quel profondo silenzio…e poi il suo viso, privo di vita…mia madre era lì.”
Mi sono svegliata di soprassalto, ero sconvolta; solo dopo alcuni secondi ho realizzato che non era vero, che non era possibile quello che avevo visto. Ma l’affanno non passava. Stavo male, il cuore non rallentava più e, paradossalmente, l’idea che fosse stato solo un brutto sogno non mi rassicurava affatto. Ho passato la notte in un continuo andirivieni di sonno e veglia, appena aprivo gli occhi mi saliva un nodo in gola e mi chiedevo come la mia mente avesse potuto produrre un pensiero così assurdo, così violento.
I sogni sono sogni: a me piace pensare che la mente metta in atto una scenografia, proprio come quella dei grandi film, per raccontare una storia o magari più di una storia. Come nei film spesso la trama principale non rappresenta a pieno l’idea che quella pellicola vuole comunicare. Allo stesso modo la nostra mente narra delle storie prendendo elementi qua e là dalla quotidianità, volendoci però comunicare qualcosa che magari va al di là della storia stessa.
Continuavo a ripetermi queste parole quella notte.
Non è forse così?
Oggi non vuole proprio rispondere alle mie domande; se ne sta lì seduto su quella sedia alle mie spalle a prendere appunti su di me e su quello che dico sul Suo taccuino blu…chissà cosa scrive…
Ieri ho pensato al fatto che non L’ho mai vista scrivere, è incredibile. Dopo mesi di conoscenza, di terapia, ho potuto solo costruire nella mia mente un’immagine della Sua persona intenta a scrivere, niente di più. Tante volte ho pensato di voltarmi, proprio nel mezzo della seduta così da avere un’immagine reale da fissare nella memoria. Proprio come Psiche che non riesce nella notte a resistere alla tentazione di vedere il volto dell’amato, e poi dovrà pagare per la sua scarsa fiducia. Avrei potuto farlo, credo.
Tante volte mi ha consolato, mi ha rassicurato, mi ha accolto quando mi lamentavo e nessun altro lo faceva: ogni volta si avvicina a me con fare quasi paterno, ma poi ecco che subito si allontana, torna ad essere il medico, l’autorità distante e gelida, ma anche la certezza. Non so dirLe quando La preferisco. Certo però preferirei che oggi mi dicesse qualcosa, qualsiasi cosa, vorrei tanto delle risposte su questo mio sogno.
Un sogno è un sogno: probabilmente ho un po’ di aggressività che mi opprime, ho bisogno di sfogo…e allora la mia mente produce un’immagine così violenta. Una sorta di catarsi notturna. Una cosa penso sia certa però: mia madre non c’entra nulla, non abbiamo neppure litigato e tra noi non c’è nessun problema, tutto come al solito. Questo è quello che penso, e direi di esserne sicura; infondo un sogno violento non fa certo di me una persona violenta…e non fa certo di mia madre una vittima di sua figlia. Probabilmente Lei non parla perché sto ragionando in maniera corretta e certo non c’è bisogno di ulteriori conferme da parte sua. Il Suo silenzio è la maggiore rassicurazione che possa darmi.
Non sono una persona insicura, non lo sono mai stata. Sono una persona pratica, efficiente, che va dritta per la sua strada. La gente intorno a me mi ritiene un punto fermo, li rassicuro perché so sempre quello che bisogna fare, mantengo la calma e non ho paura. Certo mi piace quello che sono,
è bello vedere che le persone si affidano a te, che ripongono in te la loro possibilità di concedersi delle debolezze, è un grande atto di fiducia. Io però non mi fido molto degli altri, credo che il mio sia un giudizio empirico: a giudicare dai rapporti umani e da tutti quei pasticci che possono accadere meglio stare sempre all’erta, per non soffrire troppo.
Sono una persona salda e credo Lei sappia quanto sia stato difficile per me venire qui ed ammettere che nonostante tutto le cose potrebbero andare meglio, che potrei sentirmi meglio, che ho sperato anche io per un attimo di essere felice nella maniera più frivola del mondo.
Dopo poco tempo, però, ho capito che questo era un posto speciale, che se esisteva un luogo dove avrei potuto lasciarmi un po’ andare era proprio questo. Qui c’era uno spazio aperto, di cui avrei potuto disporre, riempirlo di parole e pensieri o di silenzio. E’ il mio spazio verde, verde come una pianta nutrita dal sole.
La tranquillità poi era Lei, con la Sua penna, la Sua scrivania, la targhetta sulla porta e il Suo libretto delle ricevute messo lì, proprio accanto ai miei racconti. A volte penso che quella donna che giace su questo lettino non sia io, a volte penso di non conoscerla, ma non fa paura. Mi diverte pensare a me finalmente sotto un’altra luce, mi piace ammettere le mie mille sfaccettature tutte insieme, tutte possibili. Quando Le racconto qualcosa che ho pensato o sognato mi sento come una bambina che dice una parolaccia e subito dopo si copre la bocca con la manina per la vergogna, o magari solo per provocare negli altri una reazione; quella bambina sotto la manina contratta, infatti, sorride beffarda e gli occhietti si illuminano di un lampo di sfida. Io qui sono così, sono quella bambina…
Qui lo spazio è rassicurante tanto da potermi affezionare a questa sedia o a questo quadro che è sempre davanti ai miei occhi; ma mentre penso questo mi accorgo che è anche sterile, perché sebbene i colori e le forme inducano calore proprio come una casa, in realtà capisco di non provare nessun sentimento e che, addirittura, non saprei neppure dire che cosa rappresenta questo quadro, non l’ho mai fissato nella mente, non l’ho fatto mio.
Ed allora capisco…
Capisco che qui sono protagonista, ma ad un livello differente da qualsiasi altrove che potrei immaginare: qui davvero non conta affatto quello che indosso, o come acconcio i capelli; qui non conta neppure quello in cui credo, le idee che porto avanti e che credevo costituissero la struttura di me stessa; qui non conta neppure Lei che è strumento molto efficace in un dialogo difficile tra quello che sono e quello che penso di essere. E’ veramente come spogliarsi pian piano dei tanti strati che ci hanno arricchito ma anche appesantito da sempre; come un albero che ogni anno aggiunge un anello e diventa sempre più grande e solido, ma la corteccia è lontana dalla linfa che scorre dentro e magari la confonde. E allora bisogna tornare esattamente lì, nel momento in cui esiste il nostro essere prima, essere al di là, essere pienamente con sé stessi.