"La gente a tutto è disposta a rinunciare, fuorchè ai propri errori."

(Indro Montanelli)







venerdì 11 maggio 2012

EQUA ITALIA


L’equa Italia, l’Italia equa. Assurdo.
Assurdo chiamare così l’agenzia di riscossione tributi, anzi affascinante paradosso.

E’ un paradosso e tutti avremmo dovuto saperlo, da sempre.
Chi ha creduto nell’equità, chi ha creduto semplicemente alla possibilità della giustizia proporzionalmente distribuita, ha sperato troppo.
E non c’è nessuna amarezza in questo.

Assurdo ancora di più in Italia (fuori da ogni tipo di demagogia).
Solo che è assurdo pensare che un popolo di furbi per definizione (e probabilmente anche per vocazione), di persone perbene soprattutto per quel che gli interessa, riuscisse ad avvicinarsi almeno un po’ all’idea di equità.

Ciascuno di noi la rivendica, ma ciascuno di noi se ne discosterebbe volentieri se venisse a suo vantaggio. [ E’ il difetto più grande di questo concetto. Un cane che si morde la coda.]

Evidentemente però, sentimentali come siamo, ci avevamo creduto almeno un po’: almeno quel tanto che basta ora per indignarsi davanti ai suicidi, alle proteste di piazza, alle uova.
Almeno quel tanto che basta per spaventarci davanti al terrorismo, ai dirigenti gambizzati, all’ombra delle BR e di un’Italia che sembrava lontana secoli da qui.

Fuori da ogni demagogia, spero.
Perché il politico parla di giustizia e, al massimo, immagina un compromesso.
Il prete parla di giustizia, guarda il cielo e pensa alle promesse.

E noi ancora a cercarla, a pretenderla, spesso a pagarla.
Come andar per campi a cercare un quadrifoglio: non sai se c’è, ma sai quanto comunque sarebbe difficile trovarlo.

Che dipenda dal sistema economico o dall’equilibrio politico, che dipenda dall’inconsistenza dell’ideale o dall’irriducibile inumanità dell’uomo, non è il momento di domandarselo.
Comunque, è una questione più grande di noi, più grande del vivere quotidiano.

Più grande delle lacrime, delle tensioni, delle cartelle esattoriali; più grande delle minacce delle banche, della mensa a scuola negata ai bambini, del welfare ridotto all’osso; più grande dei ragazzi che hanno tanta voglia e nessun lavoro, di quelli che la speranza l’hanno ormai persa, dei grandi, troppo grandi per non avere più un lavoro; più grande del cappio che in un modo o nell’altro abbiamo imparato a costruirci.

Questo accade, mentre si cerca l’ equità, in giro per l’Italia, in giro per il mondo.

mercoledì 9 maggio 2012

NON TEMERE


                                                                                                             - Per tutte le donne -                                                                  

Non temere per la mia felicità.

Te lo ripetevo sempre e mi coccolavo nell’idea della tua preoccupazione; scusami se ne ho goduto appena, mentre continuavo a ripetermi che solo chi ti ama davvero si preoccupa perché tu sia felice.

E gli anni passavano lenti ed inquieti, cambiavano gli sfondi, i paesaggi: come ogni vita, indecisa tra la sicurezza di ciò che c’è e la noia di ciò che sembra non cambiare proprio mai.
Banale quotidianità, ecco tutto.

Ovvia anche la mia irrequietezza, la voglia di cambiare qualcosa, piccoli accorgimenti per ritrovare l’entusiasmo. Scusami se ti ho ferito, ma non ti avrei mai cambiato. Solo che le donne amano disegnare gli ambienti, costruire i sapori, decorare la sostanza, lo sai.
Avresti dovuto saperlo, esserne certo.

Pensavo ai bambini, al futuro, a quanto di nuovo sarebbe arrivato e non ne avevo paura.
Non pensavo non avessi capito, non pensavo fosse possibile non capire.

“Non temere per la mia felicità!” dicevo, e non capivo.
L’unica cosa che non ho mai capito era proprio questa: non temevi che non fossi felice, ma che lo fossi troppo, che lo fossi senza di te, che ti estromettessi così di botto da me.
Tu che solo eri la mia felicità, io che non sapevo di essere una semplice proprietà.
Timore immotivato. Pensavo.
E pensavo bastasse dirtelo, rassicurarti.

Ma era già troppo tardi: io continuavo la mia vita con l’uomo che ricordavo di aver incontrato, tu serbavi rancore alla donna che credevi di non riconoscere più.

Non temere.
Solo questo era rimasto, e lo dicevo a me stessa.
Non temere, attaccati all’idea che hai, al ricordo di lui e nutrilo affinché esista ancora.
Se ci credi capirà, lo sentirà; deve esistere un modo per ritrovare un contatto.

E i giorni passavano lenti ed inquieti, sempre più inquieti. Non c’era più spazio per la noia, né per la voglia. Le pareti del mondo diventavano sempre più strette, soffocavano lo sguardo.
Rimaneva una casa, una preoccupazione incessante e la sensazione di qualcosa di rotto.

Rimaneva il sospetto, il controllo, la rabbia che offende.
Quando ancora mi era concessa l’indignazione. Poi solo il dubbio.

Quante volte ti ho chiesto di credermi? Quante di perdonarmi per qualcosa che non avevo commesso?Ed ora cosa resta?

Che io sia in un letto d’ospedale, in una casa famiglia o in una fredda lapide, non temere.
A te tocca ora domandarti cosa è successo, a te fare i conti con la consapevolezza;se un giorno riuscirai di nuovo a pensare a me, non temere.
Solo ora ho capito.