Da circa cinquant’anni ormai la scienza si è misurata con la possibilità di impiantare dispositivi elettronici negli esseri viventi, ovvero di creare quelli che sono stati chiamati “cyborg”.
Si iniziò da un topo al quale si innestò sulla coda un meccanismo capace di misurarne e controllarne le funzioni vitali; si fecero innumerevoli esperimenti, si andò sempre più avanti sino ai giorni nostri.
Oggi possiamo sostituire i nostri arti, qualora fossero lesionati, con degli arti artificiali in grado, però, di percepire e rispondere, proprio come quelli biologici, agli stimoli inviati dal nostro cervello.
Già da tempo, poi, possediamo dei piccoli dispositivi in grado di implementare il funzionamento del nervo uditivo nei sordi o di permettere al cuore di battere rilasciando stimoli elettrici.
Gli interrogativi si pongono oggi, davanti ad un panorama in continua evoluzione, davanti al sospetto che presto arriveremo ad un punto tale per cui il concetto stesso di essere umano, biologicamente inteso, andrà sfuggendo ad una chiara definizione.
Oggi ci chiediamo in quale percentuale l’artificiale può interagire e integrare il naturale, in modo da continuare a vedere infondo l’uomo.
Oggi ci preoccupiamo di individuare la soglia da non violare.
Rischiamo veramente di perdere il controllo di individui ibridi e molto più potenti dei primitivi esseri umani oppure questa è ancora solamente la trama di un film di fantascienza anni ’80?
Mentre penso, non posso davvero fare a meno di pensare, che la mia naturalezza biologica è stata già irreversibilmente corrotta dall’adozione degli occhiali. Buffo eh?!
Ma il concetto è lo stesso: un supporto esterno, più o meno tecnologico, che diviene un’appendice, fissa o mobile, del corpo umano e che lo migliora, lo perfeziona nella sue mancanze.
(Non paga della mia violazione, indosso perfino le lenti a contatto…)
Ma ancora più a fondo giace l’idea imperitura del miglioramento dell’essere umano; o meglio, della vocazione umana al miglioramento di se stessa.
Gli esseri umani hanno sempre avuto questo obbiettivo, questo fine.
L’hanno fatto con la scrittura, con la volontà di fermare ciò che, per natura, era fuggevole; l’hanno fatto con le leggi per la convivenza civile, con l’architettura, con l’arte e con la scienza.
Da questa prospettiva, allora, non abbiamo fatto altro, per millenni, che rispondere nei modi più disparati ad una sola domanda: cosa posso fare per migliorare me stesso e la mia esistenza?
Il cyborg, dunque, non è che l’ultimo stadio della nostra evoluzione. Un’ibridazione contestuale alla nostra natura, proprio come ci appaiono a posteriori tutte le altre (da quando abbiamo deciso di coprirci all’utilizzo dello smartphone).