"La gente a tutto è disposta a rinunciare, fuorchè ai propri errori."

(Indro Montanelli)







sabato 31 dicembre 2011

2011

A quanto pare è finito un altro anno e, ripensandoci, quante cose porterà via con sé…



Abbiamo quasi dimenticato la catastrofe di Fukushima con pochi mesi e un referendum dagli esiti inaspettati; e poi i terremoti, le alluvioni, la bella Italia che sgocciola via, con il suo fango e le sue illusioni.



Stavamo affogando nell’oblio di una crisi economica della proporzioni mondiali, quasi quasi avremmo volentieri dimenticato anche quella (non volevamo proprio crederci): ma per fortuna è arrivato lo spread.

La più bella partita dell’anno? Finanza- Politica 1-0 (partita secca, senza bisogno di supplementari, rigori, senza polemiche arbitrali). Premio rivelazione dell’anno.



Abbiamo conosciuto finalmente i poteri forti che guiderebbero il mondo; e abbiamo allungato la lista di chi di potere non ne ha proprio.



L’Africa finalmente si è fatta sentire, una ventata di primavera e d’azione che ci ha regalato, certo, un po’ di speranza ma anche tanti morti.

Dicono sia il prezzo della libertà. Dicono che questa sia la libertà.

Siamo stati talmente presi dal Mediterraneo turbato poco sotto di noi, che abbiamo finito per dimenticarci il corno d’Africa e la carestia che lo ha messo in ginocchio.

Ma non era già in ginocchio?



Tenere troppe cose a mente non è certo da paese civile.



Il mondo, dopo quest’anno, avrà alcuni tiranni in meno (per lo meno tra quelli celebri e universalmente riconosciuti): Bin Laden e Gheddafi, tra funerali concessi e foto negate. Passa un brivido a pensare come, dopo un’intera vita passata nel sangue e nella ribalta mondiale, tutto si concluda in pochi minuti; tutto, al più, si dimentica in pochi mesi.

Meglio si normalizza e non è più un caso, non crea più un caso.



Una notizia dura poco, la prima pagina è un lusso veloce e passeggero.



In Italia, poi, quest’anno abbiamo capito anche un’altra cosa: la sottile differenza tra lo sfruttamento della prostituzione e la solidarietà nei confronti delle più povere. Ma tutto questo è questione squisitamente etica, quasi frivola per la sua inconsistenza.



Niente a che fare con la finanza, con il mercato azionario, con le grandi banche.



Ci siamo commossi, ed  è questa la nostra risorsa, ci siamo riconosciuti tutti in un ragazzo che muore di corsa, in un sogno che finisce alla svelta. Ci siamo riconosciuti di nuovo in una dignità che ci stavano insegnando a non avere. D’improvviso eravamo tutti là, tutti insieme. Nessuna polemica. Nessun regionalismo.



Abbiamo pianto il padre del futuro che ci ha lasciato; la commozione nell’i-phone. Lo abbiamo pianto per il suo genio; ma sopratutto perché quando il futuro diviene passato, il cambiamento è necessario. E fa paura. Una piccola resistenza.



Ci siamo stretti davanti al tricolore, a pensare che di anni ne sono passati 150. Un momento di intimità e di onestà, prima di ritornare a rivendicare la secessione a colpi di formaggio stagionato.

Evidentemente, in 150 anni non si è trovato argomento migliore.



E’ stato, inoltre, l’ennesimo anno all’insegna del delitto perfetto: che poi sorge il dubbio che anche se tanto perfetto non è, l’unica scocciatura certa sono gli anni di processo da affrontare.



Abbiamo abusato quest’anno della fiducia, ma solo della versione parlamentare e politicizzata di essa. Ma ora è iniziata un’altra storia. Certo tutta da dimostrare.



Lo chiudiamo con il problema delle pensioni quest’ anno, croce e delizia di ogni programma politico; lo chiudiamo nell’austerità economica, ma anche nell’eleganza formale. Lo chiudiamo, infondo, come si chiudono tutti gli anni, un po’ confusi tra ciò che è stato e ciò che sarà.

Tra la speranza e la paura, l’aspettativa e la delusione.





Buon anno,

Magnolia

lunedì 12 dicembre 2011

LO SPAZIO BLU

Il blu è il colore della sobria eleganza, dell’ordine e della disciplina, della tranquillità e dell’equilibrio; è la prima volta che Viola lo pensa, che lo ripete a se stessa come un mistero svelato, come il dischiudersi improvviso e luminoso di una verità risolutiva, come quando risolvi un rebus.
In realtà, però, lo aveva sempre saputo: la mamma da bambina la vestiva sempre di blu la domenica mattina per andare in chiesa, di blu per i pranzi con i parenti e di blu ad ogni occasione mondana che si presentasse alla loro famiglia. Ricorda bene quella gonna a pieghe così pesante, lunga sino alle ginocchia ed oltre, che avvolgeva tutta la pancia, e solleticava le costole; ogni volta che la indossava, insieme alla camicetta bianca con il pizzo e il gilet blu, Viola veniva assalita da una sensazione di costrizione, credeva che quella gonna prima o poi le avrebbe tolto il respiro. Si immaginava, non senza un po’ di sadismo (ora lo capiva) di piombare a terra nel bel mezzo di un pranzo dagli zii o, ancora meglio, appena arrivati durante quel baratto confuso di baci e carezze: saluti retorici.
Eppure non ha mai avuto un malore, ha portato in silenzio quella gonna per tutto il tempo che la mamma ha ritenuto opportuno, ha assistito in silenzio al logorio del tempo, alla rottura della lampo; un silenzio tale da non ricordare nemmeno il giorno della sua liberazione definitiva.
Da quel giorno irrintracciabile nel quale quel tessuto è uscito dalla sua vita, Viola non ha più indossato nulla di blu, non ha nemmeno più acquistato nessun oggetto di quel colore. Unica eccezione i jeans, che però erano così lontani nella sua mente da quella gonna a pieghe!!!

Viola apre gli occhi, ecco ci siamo di nuovo…è in piedi, immobile, c’è una grande nebbia, quasi come se l’aria, se ogni singola molecola fosse diventata in parte solida e non lasciasse trasparire nulla. Si trova in una stanza circolare, come la hall di un albergo, vuota. Davanti a lei tante porte, tutte chiuse, da alcune traspare una flebile luce, da altre il buio totale. Il silenzio rimbomba.
Non è la prima volta che le capita, spesso si è trovata in questo luogo negli anni, è la sua “stanza blu”: la prima volta le è capitato la sera, nel momento in cui il sonno e la veglia si mescolano e si entra in quello stato tutto particolare di semicoscienza. Per uscire da quella stanza, l’unico modo è aprire una porta, quella giusta, pensava Viola all’inizio; quasi come in un quiz o in un reality show, avrebbe dovuto tentare la fortuna e scegliere una porta per vedere dove l’avrebbe portata!
Ma con il tempo, si accorse che la sfida non era questa.
In quella stanza l’aria pesa, grava sulle spalle, sulle braccia e attraversa tutta la schiena spingendoti a terra. Devi resistere, devi riuscire a muoverti, devi arrivare ad una porta, una qualsiasi, devi assolutamente uscire di lì.
Dietro le porte si sentono voci, musiche o silenzio…dietro ogni porta abita una possibilità diversa: per Viola sono tante le possibilità, c’è la voglia di costruire una carriera, di trovare soddisfazione in un’attività nella quale possa riconoscersi, di emanciparsi. C’è anche, però, il bisogno di essere amata, di condividere la vita con qualcuno, di accettare ed essere accettata. Dietro un’altra porta ci sono i viaggi che non ha ancora fatto, i cieli che non ha ancora visto, i visi che avrebbe voluto conoscere o che potrebbe conoscere senza volerlo. La gioia, la serenità.
Oltre quel muro, oltre tutte quelle porta esiste un futuro, il futuro possibile di Viola, e lei continua a chiedersi perché si trova lì ferma, perché non ha aperto tutte le porte e non è scappata al di là, perché semplicemente esistono quelle porte, quella dura materia a frapporsi tra lei e ciò che potrebbe essere, tra lei e la sua speranza di esistere.
Mentre si chiede questo eccola lì, paralizzata sotto il peso dell’aria, sotto il peso della materia, incapace di muovere un solo passo, incapace di desiderare profondamente qualcosa, incapace di immaginare la possibilità di stare maglio.
Sa bene cosa si nasconde dietro quei muri nella sua mente, e quanto vorrebbe essere lì…
Ma non riesce neppure a pensare che questo possa essere possibile, non riesce a credere che potrebbe essere felice, magari un giorno, magari in un futuro non troppo lontano.
E’ paralizzata perché la sola possibilità di muovere qualche passo, sotto quel peso ossessivo le sembra così lontana, quasi impossibile.
Chissà la mamma cosa farebbe, se potesse aiutarla, chissà se avesse amato quella gonna o se invece l’avesse strappata, chissà…

Viola passa molte serate nella sua stanza blu e non ne è felice; ci sono momenti in cui riesce ad avvicinarsi ad una porta e ad aprire anche solo uno spiraglio, poi ricomincia a nutrirsi di speranza. Ci sono, invece, dei momenti nei quali la paralisi ha il sopravvento e allora l’unica soluzione è aspettare che arrivi il sonno a salvarla e a strapparla per un po’ dalle sue paure.

Anche quello di Viola è un non-luogo, il non-luogo dell’anima. L’umore depresso. In quella stanza blu regna il silenzio, l’impossibilità di essere, il vuoto che si respira e soffoca. In quel blu confluiscono molti colori, vengono assorbiti, ma non riflessi. In quel blu si mescolano le vite di molte persone, le loro paure.
Come il ghiaccio che ricopre ogni cosa, ne rispetta i contorni ma li paralizza e ne congela il cuore. In attesa della primavera…

giovedì 1 dicembre 2011

ERA SOLO UNO SPUNTO

Passavo, leggevo, pensavo.
Più precisamente: passavo nel web per controllare la posta, leggevo distrattamente un articolo di un giornale, pensavo a quanta paura e quanta confusione stia iniziando ad infiltrarsi negli anfratti della nostra mente.

Pare, e lo dico nella maniera più neutrale possibile, che uno studio di qualche pregevole università abbia rintracciato un collegamento tra il grado di istruzione delle donne e la loro prolificità; pare, quindi, che quanto più una donna studi, acquisisca conoscenze e competenze, tanto più tenda a rimanere nubile e a non fare figli.

Il giornalista che riporta questa notizia, con il sarcasmo dell’editorialista e il disincanto dell’uomo che sa di sapere, sposa con sobria convinzione la tesi.  Se vogliamo salvare il nostro paese, continua, in preda ad una profonda crisi demografica e sull’orlo dell’estinzione, abbiamo a disposizione due possibilità: indulgere sull’immigrazione sempre crescente da paesi che non hanno certo il problema demografico, e/o convincere le nostre donne, colta testimonianza della crisi sociale odierna, ad “appendere il libro al chiodo”.

Come era facile prevedere, subito l’articolo viene seppellito da interventi scandalizzati e sconcertati di donne, e non solo, che rivendicano la loro posizione e inorridiscono davanti a tanta volgarità di pensiero.

Anch’io, come tutte le donne sono stata colta da questi sentimenti; mi sono sentita immediatamente offesa nel profondo, mi sono sentita privata della mia identità istintiva, biologica. Ho pensato che di nuovo accadeva quello che spesso è accaduto nei secoli e nelle nostre brevi vite (per lo meno a me è capitato spesso di pensarlo): si segue una strada, si intraprende un percorso, si ottengono risultati che, però, “magicamente”, una volta acquisiti, diventano della armi affilate capaci di ritorcersi contro di noi.
Niente di nuovo.

Ho ricordato i testi che ho studiato all’università, ho pensato al libro che proprio in questo periodo, sto leggendo: “Ave Mary” di Michela Murgia (interessante). Ed ecco che subito vengo investita da suggestioni di pensiero femminista, da rivendicazioni di una parità sempre mancante, dall’amaro di un gioco che non arriva mai ad una soluzione. La donna ha un ruolo sociale ben definito. E’ vero, negli anni è cambiato, si è trasformato, ma un ruolo è sempre un ruolo. Un ruolo è un posto, e ciascuno di noi ne ha uno. Chi non ce l’ha, in sostanza, non partecipa al gioco. Un ruolo è sempre parziale, sempre mancante, sempre costituzionalmente incapace di rendere giustizia della nostra complessità, delle nostre sfumature.
E la donna (perdonatemi la rivendicazione nuda e cruda) ne ha sempre sofferto più degli altri.

Allora mi ritrovo qui, davanti a questo schermo, io che sono cresciuta senza questa preoccupazione, in anni di celebrazione dell’ emancipazione (in anni così lontani che probabilmente invece di aver assimilato il passato, lo hanno dimenticato) mi ritrovo qui, combattuta e frustrata nello scoprire che, infondo, quella ricerca un po’ di ragione ce l’ha davvero. Certo non credo che la mia istruzione, così come quella di tante altre donne, mi potrebbe impedire di essere mamma, di pensarlo e di desiderarlo: è una violenza mentale, un ricatto inaccettabile.

Penso però che il nostro mondo si sia allargato, che abbiamo ammesso la possibilità di non corrispondere ad un modello statico. Penso che abbiamo ancora tanta voglia di dimostrare una parità che tarda ad esistere nel profondo, e probabilmente non esisterà mai.

Penso e ripenso.

Penso che ognuno di noi ha un ruolo, un ruolo più o meno complesso, composito. Penso che non riusciremmo ad esistere fuori da una categorizzazione; sarebbe un’anarchia utopistica.
Penso che ciascuno paga il prezzo di rientrare in un ruolo che gli andrà necessariamente stretto, e perderà una parte di sé.

Ritorna l’amarezza che accompagna sempre queste riflessioni.

Ma penso ancora: penso che il problema sia stato mal posto, che ci sia stata un’inversione nel modo di leggere la realtà. Fatto frequente.
Penso che se le cose vanno in questo modo, se le donne colte spesso non fanno figli o ne fanno pochi, la soluzione non può essere, come sembra sia già accaduto in passato, quella di toglierci una possibilità, la libertà. Nemmeno in un articolo scritto con provocatorio disincanto.  
Se volessimo (e pongo il problema sotto forma di ipotesi, perché rimane il dubbio circa la reale volontà di affrontare il tema) davvero analizzare la questione ci sarebbe anche da domandarsi come mai la società non è ancora pronta ad accogliere le donne, per quello che sono, a tutto tondo, nelle loro sfumature. Come mai una donna è necessariamente una moglie e una mamma: potenziale, effettiva o mancata.
Come mai la società non è ancora pronta ad accogliere l’individualità degli esseri umani tutti, uomini o donne che siano, e li stigmatizza in un dualismo bene/male, giusto/sbagliato, funzionale/disfunzionale.

Penso e il pensiero sfuma, confonde: bisognerebbe fermarsi, riflettere, chiarirsi le idee.
Ma, infondo, era solo uno spunto.