"La gente a tutto è disposta a rinunciare, fuorchè ai propri errori."

(Indro Montanelli)







lunedì 25 agosto 2014

Riflettendo su "Cecità"... - Saramago -

In questa estate così poco convincente ho incontrato un libro che mi ha lasciato addosso una sensazione di straniamento e una riflessione sottile che continua a bussare alla mia porta. La storia si basa su una supposizione, una proiezione fantastica in un mondo ipotetico fin troppo reale. Supponiamo che un giorno qualsiasi, in una città qualsiasi un uomo fermo al semaforo diventasse improvvisamente cieco; supponiamo che, come sempre, l’evento susciti curiosità e moderata preoccupazione tra gli astanti e tra coloro che lo vengono a sapere. Così inizia il libro “Cecità” di Josè Saramago, e già dalle prime battute l’interrogativo che ci viene posto con forza non riguarda la fantasia ma il nostro mondo così crudo e reale. Ecco allora la banalità di chi prova ad approfittarsi dell’improvvisa invalidità, delle debolezza, della paura.
Finora niente di nuovo. Ma se poi, con una velocità disarmante, questa misteriosa malattia si diffondesse seguendo sconosciute regole di contagio? Se nell’arco di una giornata tutti coloro che hanno avuto a che fare con il misterioso cieco avessero anche loro perso la vista? Nell’arco di pochi giorni si crea un esercito di persone che non vedono altro che il candore agghiacciante del bianco; la sicurezza pubblica impone la quarantena, l’allontanamento dei contagiati, l’allestimento di strutture per ospitarli ed isolarli.
Cosa succede là dentro, in un ex manicomio, in cui non esistono infermieri, aiutanti, pulizia? Chi aiuta quei poveri ciechi, che non hanno ancora imparato ad esserlo e tentano di aiutarsi vicendevolmente, per quel poco che vale. Qui Saramago non è avaro di descrizioni e particolari del degrado che può subire la vita umana e dell’annientamento di ogni dignità. Cos’è poi la dignità? Un concetto sociale, civile a tal punto da scomparire insieme alle dorate regole del  nostro piccolo mondo. Così ci si approfitta, si diventa avidi ed egoisti come non avremmo mai pensato di essere, si uccide se necessario, e si scopre che non era poi così difficile come pensavamo.
Gentile e saldo filo conduttore nella vicenda, una donna. Una moglie devota che si finge cieca per seguire il marito ed aiutarlo, e finisce per assistere tutti coloro che le orbitano intorno. La cosa più interessante e più spaventosa, il tema che ci mette violentemente davanti alla pochezza del nostro mondo, è la terribile condanna che subisce questa donna, alla quale non è stata tolta la vista ma ha subito di peggio: è stata obbligata a vedere la malattia, la morte, la distruzione e la disperazione attraverso i suoi occhi ogni giorno più stanchi. Quella donna è rimasta sola a contemplare la debolezza e l’estrema precarietà della vita umana con i suoi soli occhi e la sua sola forza.

Chi riuscirebbe a vedere così tanto?

lunedì 27 gennaio 2014

27 gennaio 2014: Giornata della Memoria

Oggi è il giorno della Memoria, data deputata al ricordo del genocidio degli ebrei per mano dei nazisti e di tutti i genocidi e gli stermini che sono avvenuti e avvengono nel mondo. Per questa giornata, il Corriere della Sera ha pubblicato sul suo sito dei brevi filmati che raccontano la storia di Vera Vigevani Jarach, una donna scappata dall’Italia da bambina e sfuggita così alla deportazione; quella stessa donna, molti anni dopo, ha perduto la figlia diciottenne, rapita durante il periodo della dittatura militare argentina e uccisa in uno dei tanti “voli della morte”. Questi brevi filmati sono molto interessanti perché allargano la prospettiva della memoria e universalizzano il dolore e il senso di ingiustizia.

Al di là di tutte le riflessioni che si potrebbero fare sul tema, e che probabilmente sono già state fatte, un momento in particolare di questi racconti mi ha molto colpito: il momento in cui la signora Vera si trova con il regista davanti a quel mare, a quell’oceano che costituisce ormai l’unica tomba per sua figlia e per altri trentamila ragazzi. Lì, Vera dice che è molto difficile essere la madre di un figlio morto, perché non si può più essere madre dopo la morte, ma necessariamente si rimane madre e, quindi, in lutto perenne.

E’ qualcosa che, in un certo senso, distorce la natura e la piega ad una logica incomprensibile al sentire umano, è qualcosa che non si può superare e, per questo, credo che ogni mamma, ogni genitore, debba cercare un modo, un motivo valido per vivere ancora, al di là della mera sopravvivenza. Vera ha trovato questo motivo, nella conservazione della memoria, individuale e collettiva, nella sensibilizzazione e nel racconto perpetuo. Ha consegnato sua figlia e il suo dolore di mamma alla storia, rendendosi parte di essa.

Mi chiedo, con il passare degli anni, quanti impercettibili cambiamenti abbia notato nei suoi racconti, quante parole scartate, quante scelte: mi chiedo sa abbia visto mutare il suo ricordo personale in fatto storico, mi chiedo se abbia sentito poco a poco crescere la distanza.

Me lo sono chiesta, mentre la vedevo gettare in mare dei fiori: come riporli sulla tomba.

Mi sono chiesta cosa proverà quella donna mentre guarda il mare, quelle acque che hanno accolto sua figlia per l’ultima volta. Toccherà quell’acqua? Riuscirà a bagnarsi alla riva? Se lo farà, è solo perché è riuscita a mettere una distanza, è riuscita a consegnarsi alla storia.
Probabilmente l’unico modo per sopravvivere.