"La gente a tutto è disposta a rinunciare, fuorchè ai propri errori."

(Indro Montanelli)







sabato 31 dicembre 2011

2011

A quanto pare è finito un altro anno e, ripensandoci, quante cose porterà via con sé…



Abbiamo quasi dimenticato la catastrofe di Fukushima con pochi mesi e un referendum dagli esiti inaspettati; e poi i terremoti, le alluvioni, la bella Italia che sgocciola via, con il suo fango e le sue illusioni.



Stavamo affogando nell’oblio di una crisi economica della proporzioni mondiali, quasi quasi avremmo volentieri dimenticato anche quella (non volevamo proprio crederci): ma per fortuna è arrivato lo spread.

La più bella partita dell’anno? Finanza- Politica 1-0 (partita secca, senza bisogno di supplementari, rigori, senza polemiche arbitrali). Premio rivelazione dell’anno.



Abbiamo conosciuto finalmente i poteri forti che guiderebbero il mondo; e abbiamo allungato la lista di chi di potere non ne ha proprio.



L’Africa finalmente si è fatta sentire, una ventata di primavera e d’azione che ci ha regalato, certo, un po’ di speranza ma anche tanti morti.

Dicono sia il prezzo della libertà. Dicono che questa sia la libertà.

Siamo stati talmente presi dal Mediterraneo turbato poco sotto di noi, che abbiamo finito per dimenticarci il corno d’Africa e la carestia che lo ha messo in ginocchio.

Ma non era già in ginocchio?



Tenere troppe cose a mente non è certo da paese civile.



Il mondo, dopo quest’anno, avrà alcuni tiranni in meno (per lo meno tra quelli celebri e universalmente riconosciuti): Bin Laden e Gheddafi, tra funerali concessi e foto negate. Passa un brivido a pensare come, dopo un’intera vita passata nel sangue e nella ribalta mondiale, tutto si concluda in pochi minuti; tutto, al più, si dimentica in pochi mesi.

Meglio si normalizza e non è più un caso, non crea più un caso.



Una notizia dura poco, la prima pagina è un lusso veloce e passeggero.



In Italia, poi, quest’anno abbiamo capito anche un’altra cosa: la sottile differenza tra lo sfruttamento della prostituzione e la solidarietà nei confronti delle più povere. Ma tutto questo è questione squisitamente etica, quasi frivola per la sua inconsistenza.



Niente a che fare con la finanza, con il mercato azionario, con le grandi banche.



Ci siamo commossi, ed  è questa la nostra risorsa, ci siamo riconosciuti tutti in un ragazzo che muore di corsa, in un sogno che finisce alla svelta. Ci siamo riconosciuti di nuovo in una dignità che ci stavano insegnando a non avere. D’improvviso eravamo tutti là, tutti insieme. Nessuna polemica. Nessun regionalismo.



Abbiamo pianto il padre del futuro che ci ha lasciato; la commozione nell’i-phone. Lo abbiamo pianto per il suo genio; ma sopratutto perché quando il futuro diviene passato, il cambiamento è necessario. E fa paura. Una piccola resistenza.



Ci siamo stretti davanti al tricolore, a pensare che di anni ne sono passati 150. Un momento di intimità e di onestà, prima di ritornare a rivendicare la secessione a colpi di formaggio stagionato.

Evidentemente, in 150 anni non si è trovato argomento migliore.



E’ stato, inoltre, l’ennesimo anno all’insegna del delitto perfetto: che poi sorge il dubbio che anche se tanto perfetto non è, l’unica scocciatura certa sono gli anni di processo da affrontare.



Abbiamo abusato quest’anno della fiducia, ma solo della versione parlamentare e politicizzata di essa. Ma ora è iniziata un’altra storia. Certo tutta da dimostrare.



Lo chiudiamo con il problema delle pensioni quest’ anno, croce e delizia di ogni programma politico; lo chiudiamo nell’austerità economica, ma anche nell’eleganza formale. Lo chiudiamo, infondo, come si chiudono tutti gli anni, un po’ confusi tra ciò che è stato e ciò che sarà.

Tra la speranza e la paura, l’aspettativa e la delusione.





Buon anno,

Magnolia

lunedì 12 dicembre 2011

LO SPAZIO BLU

Il blu è il colore della sobria eleganza, dell’ordine e della disciplina, della tranquillità e dell’equilibrio; è la prima volta che Viola lo pensa, che lo ripete a se stessa come un mistero svelato, come il dischiudersi improvviso e luminoso di una verità risolutiva, come quando risolvi un rebus.
In realtà, però, lo aveva sempre saputo: la mamma da bambina la vestiva sempre di blu la domenica mattina per andare in chiesa, di blu per i pranzi con i parenti e di blu ad ogni occasione mondana che si presentasse alla loro famiglia. Ricorda bene quella gonna a pieghe così pesante, lunga sino alle ginocchia ed oltre, che avvolgeva tutta la pancia, e solleticava le costole; ogni volta che la indossava, insieme alla camicetta bianca con il pizzo e il gilet blu, Viola veniva assalita da una sensazione di costrizione, credeva che quella gonna prima o poi le avrebbe tolto il respiro. Si immaginava, non senza un po’ di sadismo (ora lo capiva) di piombare a terra nel bel mezzo di un pranzo dagli zii o, ancora meglio, appena arrivati durante quel baratto confuso di baci e carezze: saluti retorici.
Eppure non ha mai avuto un malore, ha portato in silenzio quella gonna per tutto il tempo che la mamma ha ritenuto opportuno, ha assistito in silenzio al logorio del tempo, alla rottura della lampo; un silenzio tale da non ricordare nemmeno il giorno della sua liberazione definitiva.
Da quel giorno irrintracciabile nel quale quel tessuto è uscito dalla sua vita, Viola non ha più indossato nulla di blu, non ha nemmeno più acquistato nessun oggetto di quel colore. Unica eccezione i jeans, che però erano così lontani nella sua mente da quella gonna a pieghe!!!

Viola apre gli occhi, ecco ci siamo di nuovo…è in piedi, immobile, c’è una grande nebbia, quasi come se l’aria, se ogni singola molecola fosse diventata in parte solida e non lasciasse trasparire nulla. Si trova in una stanza circolare, come la hall di un albergo, vuota. Davanti a lei tante porte, tutte chiuse, da alcune traspare una flebile luce, da altre il buio totale. Il silenzio rimbomba.
Non è la prima volta che le capita, spesso si è trovata in questo luogo negli anni, è la sua “stanza blu”: la prima volta le è capitato la sera, nel momento in cui il sonno e la veglia si mescolano e si entra in quello stato tutto particolare di semicoscienza. Per uscire da quella stanza, l’unico modo è aprire una porta, quella giusta, pensava Viola all’inizio; quasi come in un quiz o in un reality show, avrebbe dovuto tentare la fortuna e scegliere una porta per vedere dove l’avrebbe portata!
Ma con il tempo, si accorse che la sfida non era questa.
In quella stanza l’aria pesa, grava sulle spalle, sulle braccia e attraversa tutta la schiena spingendoti a terra. Devi resistere, devi riuscire a muoverti, devi arrivare ad una porta, una qualsiasi, devi assolutamente uscire di lì.
Dietro le porte si sentono voci, musiche o silenzio…dietro ogni porta abita una possibilità diversa: per Viola sono tante le possibilità, c’è la voglia di costruire una carriera, di trovare soddisfazione in un’attività nella quale possa riconoscersi, di emanciparsi. C’è anche, però, il bisogno di essere amata, di condividere la vita con qualcuno, di accettare ed essere accettata. Dietro un’altra porta ci sono i viaggi che non ha ancora fatto, i cieli che non ha ancora visto, i visi che avrebbe voluto conoscere o che potrebbe conoscere senza volerlo. La gioia, la serenità.
Oltre quel muro, oltre tutte quelle porta esiste un futuro, il futuro possibile di Viola, e lei continua a chiedersi perché si trova lì ferma, perché non ha aperto tutte le porte e non è scappata al di là, perché semplicemente esistono quelle porte, quella dura materia a frapporsi tra lei e ciò che potrebbe essere, tra lei e la sua speranza di esistere.
Mentre si chiede questo eccola lì, paralizzata sotto il peso dell’aria, sotto il peso della materia, incapace di muovere un solo passo, incapace di desiderare profondamente qualcosa, incapace di immaginare la possibilità di stare maglio.
Sa bene cosa si nasconde dietro quei muri nella sua mente, e quanto vorrebbe essere lì…
Ma non riesce neppure a pensare che questo possa essere possibile, non riesce a credere che potrebbe essere felice, magari un giorno, magari in un futuro non troppo lontano.
E’ paralizzata perché la sola possibilità di muovere qualche passo, sotto quel peso ossessivo le sembra così lontana, quasi impossibile.
Chissà la mamma cosa farebbe, se potesse aiutarla, chissà se avesse amato quella gonna o se invece l’avesse strappata, chissà…

Viola passa molte serate nella sua stanza blu e non ne è felice; ci sono momenti in cui riesce ad avvicinarsi ad una porta e ad aprire anche solo uno spiraglio, poi ricomincia a nutrirsi di speranza. Ci sono, invece, dei momenti nei quali la paralisi ha il sopravvento e allora l’unica soluzione è aspettare che arrivi il sonno a salvarla e a strapparla per un po’ dalle sue paure.

Anche quello di Viola è un non-luogo, il non-luogo dell’anima. L’umore depresso. In quella stanza blu regna il silenzio, l’impossibilità di essere, il vuoto che si respira e soffoca. In quel blu confluiscono molti colori, vengono assorbiti, ma non riflessi. In quel blu si mescolano le vite di molte persone, le loro paure.
Come il ghiaccio che ricopre ogni cosa, ne rispetta i contorni ma li paralizza e ne congela il cuore. In attesa della primavera…

giovedì 1 dicembre 2011

ERA SOLO UNO SPUNTO

Passavo, leggevo, pensavo.
Più precisamente: passavo nel web per controllare la posta, leggevo distrattamente un articolo di un giornale, pensavo a quanta paura e quanta confusione stia iniziando ad infiltrarsi negli anfratti della nostra mente.

Pare, e lo dico nella maniera più neutrale possibile, che uno studio di qualche pregevole università abbia rintracciato un collegamento tra il grado di istruzione delle donne e la loro prolificità; pare, quindi, che quanto più una donna studi, acquisisca conoscenze e competenze, tanto più tenda a rimanere nubile e a non fare figli.

Il giornalista che riporta questa notizia, con il sarcasmo dell’editorialista e il disincanto dell’uomo che sa di sapere, sposa con sobria convinzione la tesi.  Se vogliamo salvare il nostro paese, continua, in preda ad una profonda crisi demografica e sull’orlo dell’estinzione, abbiamo a disposizione due possibilità: indulgere sull’immigrazione sempre crescente da paesi che non hanno certo il problema demografico, e/o convincere le nostre donne, colta testimonianza della crisi sociale odierna, ad “appendere il libro al chiodo”.

Come era facile prevedere, subito l’articolo viene seppellito da interventi scandalizzati e sconcertati di donne, e non solo, che rivendicano la loro posizione e inorridiscono davanti a tanta volgarità di pensiero.

Anch’io, come tutte le donne sono stata colta da questi sentimenti; mi sono sentita immediatamente offesa nel profondo, mi sono sentita privata della mia identità istintiva, biologica. Ho pensato che di nuovo accadeva quello che spesso è accaduto nei secoli e nelle nostre brevi vite (per lo meno a me è capitato spesso di pensarlo): si segue una strada, si intraprende un percorso, si ottengono risultati che, però, “magicamente”, una volta acquisiti, diventano della armi affilate capaci di ritorcersi contro di noi.
Niente di nuovo.

Ho ricordato i testi che ho studiato all’università, ho pensato al libro che proprio in questo periodo, sto leggendo: “Ave Mary” di Michela Murgia (interessante). Ed ecco che subito vengo investita da suggestioni di pensiero femminista, da rivendicazioni di una parità sempre mancante, dall’amaro di un gioco che non arriva mai ad una soluzione. La donna ha un ruolo sociale ben definito. E’ vero, negli anni è cambiato, si è trasformato, ma un ruolo è sempre un ruolo. Un ruolo è un posto, e ciascuno di noi ne ha uno. Chi non ce l’ha, in sostanza, non partecipa al gioco. Un ruolo è sempre parziale, sempre mancante, sempre costituzionalmente incapace di rendere giustizia della nostra complessità, delle nostre sfumature.
E la donna (perdonatemi la rivendicazione nuda e cruda) ne ha sempre sofferto più degli altri.

Allora mi ritrovo qui, davanti a questo schermo, io che sono cresciuta senza questa preoccupazione, in anni di celebrazione dell’ emancipazione (in anni così lontani che probabilmente invece di aver assimilato il passato, lo hanno dimenticato) mi ritrovo qui, combattuta e frustrata nello scoprire che, infondo, quella ricerca un po’ di ragione ce l’ha davvero. Certo non credo che la mia istruzione, così come quella di tante altre donne, mi potrebbe impedire di essere mamma, di pensarlo e di desiderarlo: è una violenza mentale, un ricatto inaccettabile.

Penso però che il nostro mondo si sia allargato, che abbiamo ammesso la possibilità di non corrispondere ad un modello statico. Penso che abbiamo ancora tanta voglia di dimostrare una parità che tarda ad esistere nel profondo, e probabilmente non esisterà mai.

Penso e ripenso.

Penso che ognuno di noi ha un ruolo, un ruolo più o meno complesso, composito. Penso che non riusciremmo ad esistere fuori da una categorizzazione; sarebbe un’anarchia utopistica.
Penso che ciascuno paga il prezzo di rientrare in un ruolo che gli andrà necessariamente stretto, e perderà una parte di sé.

Ritorna l’amarezza che accompagna sempre queste riflessioni.

Ma penso ancora: penso che il problema sia stato mal posto, che ci sia stata un’inversione nel modo di leggere la realtà. Fatto frequente.
Penso che se le cose vanno in questo modo, se le donne colte spesso non fanno figli o ne fanno pochi, la soluzione non può essere, come sembra sia già accaduto in passato, quella di toglierci una possibilità, la libertà. Nemmeno in un articolo scritto con provocatorio disincanto.  
Se volessimo (e pongo il problema sotto forma di ipotesi, perché rimane il dubbio circa la reale volontà di affrontare il tema) davvero analizzare la questione ci sarebbe anche da domandarsi come mai la società non è ancora pronta ad accogliere le donne, per quello che sono, a tutto tondo, nelle loro sfumature. Come mai una donna è necessariamente una moglie e una mamma: potenziale, effettiva o mancata.
Come mai la società non è ancora pronta ad accogliere l’individualità degli esseri umani tutti, uomini o donne che siano, e li stigmatizza in un dualismo bene/male, giusto/sbagliato, funzionale/disfunzionale.

Penso e il pensiero sfuma, confonde: bisognerebbe fermarsi, riflettere, chiarirsi le idee.
Ma, infondo, era solo uno spunto.

giovedì 3 novembre 2011

IL SOSPETTO DEI BAMBINI

I bambini ti credono subito, ti prendono sempre sul serio; sono sguarniti del “legittimo sospetto”, loro, incapaci di prendere qualcosa “con le pinze”…per ogni piccolo esserino è impossibile anche solo pensare una mezza verità, domandarsi se una mezza verità corrisponda necessariamente ad una mezza menzogna.

Non capiscono loro, non hanno ancora quelle sovrastrutture che ci fanno pensare che, a volte, quello che diciamo non è tutto o, forse, non è proprio così come l’abbiamo detto. Il confine netto tra ciò che è e ciò che si narra (che diventa inevitabilmente qualcosa in virtù di chi lo racconta e di come, perché lo racconta) non si è ancora radicato in loro; sfuggono al cavillo, all’obiezione faziosa, al relativismo di ogni opinione.

Non sanno che le parole a volte sembrano sfuggire proprio mentre stavi per afferrarle…e allora ne prendi un’altra, ma non è più la stessa cosa! Che cosa succede allora?

Succede che hai appena espresso qualcosa che corrisponde alle tue parole, sì, ma non più a quello che avevi in mente…a volte! [difetti di oratoria o fluire del pensiero]

E le parole si perdono nel mezzo, in quella zona di indistinzione, in quel vuoto.

E poi, c’è l’ironia, il sarcasmo, e quello proprio non lo conoscono; se li prendi in giro si offendono subito, se la prendono. Ma non sono mica permalosi, solo non capiscono! Non capiscono che se dici una cosa ridendo il significato magari è un altro, magari si cerca un contatto con l’altro, magari si ride in compagnia, si sdrammatizza o magari si sceglie solamente di dire una verità ridendo (perché ridendo si possono dire tante verità, quasi tutte!)…Chi lo sa? I bambini non lo sanno di certo!


I bambini questo ancora non lo sanno, e non fateglielo sapere: ci sarà tempo.

Piuttosto pensiamoci noi, davanti a quei visini a non imbrogliarli, a non confonderli con il nostro linguaggio già pronto a smentire, tergiversare, alludere; pensiamoci noi a prenderci davvero sul serio, almeno davanti a loro…


ANIMA FRAGILE

Condannata ad essere un'anima fragile,sfumata come una pennellata distratta,
sempre in cerca di un ultimo tassello,
sempre mancante.
Incapace di capire i confini,
ma spesso ferma sotto un muro,
incapace di abbatterlo.
Non guarda, osserva, scruta
l'oltre è sempre in primo piano.
Sempre intensa ma sempre tanto lontana,
quasi assente.
Di certo vera, qui, nell'incompletezza.

TENERO BRILLIO DI UNA STELLA

E lo sguardo si innalza al cielo,

in una notte violata dal solito dolore

e vive la speranza celata negli occhi,

cullata nel cuore.


Parla ad una stella lei brilla di calma

soave, forse ascolterebbe l’antologica

sofferenza, sorriderebbe magnanima

e non avrebbe paura di perdere la sua

serrata bellezza, il suo osannato splendore.


Conosci il sole e la luna, arrancano assetati

ogni alba, ogni tramonto e meritano

un posto d’onore nel cielo e nel cuore

degli umani.


Ma nell’universo si perde e scivola via

ogni squallido artificio umano e quella stella,

non consuma la sua incantevole effige

dinnanzi al compromesso.


E probabilmente non sarà mai luna.


Ma una lacrima scivolerà anch’essa,

solcherà quel cielo oceanico, con timidezza
sfiorerà le altre stelle e le animerà
di nuova luce.

Quella sofferenza silenziosa la innalzerà
a divinità, su un palcoscenico di nuvole
nessuno l’ammirerà.


Si perderà la sua viva sofferenza e

morirà ancora una volta in quella lacrima cristallina

e pura, l’amara parabola dell’universo.

RECENSIONE

MALINCONICAMENTE

“La verità è che ci sono persone, vai a capire com’è che succede, che hanno la capacità di beccarti nella tua versione più insulsa, di farti esprimere sempre al minimo delle tue possibilità. … Siamo fatti di banalità e d’intelligenza,e passiamo da una naturalezza all’altra con una costa.”

 “In altre parole, quando ti innamori diventi un qualunquista di merda. Peggio: un cafone arricchito, che appena fa un po’ di soldi scopre di apprezzare le cose che schifava quando non se le poteva permettere; e poi se ne va in giro a contrabbandarsi per un’anima sensibile, portata per il bello e l’immateriale.”

L’anno scorso in occasione del mio compleanno ho ricevuto in dono da una mia cara amica il libro di Diego De Silva “Non avevo capito niente”: al di là del titolo decisamente affascinante e dello stimolo immediato alla partecipazione emotiva con la sobria presa di coscienza dell’autore, la mia amica mi ha subito presentato il testo come un libro divertente, di facile  ed agevole lettura, ma anche ricco di ironia, sarcasmo e, cosa da non sottovalutare,capace di proporre un suo modo attento e condivisibile di leggere la vita. 

Quando mi capita di sentire un’arringa così intensa, però, che riguardi un libro o un uomo con cui andare a cena, non posso fare a meno di provare un immediato e sottile, quasi inconscio, senso di repulsione nei confronti dell’oggetto di lode: credo sia lo stesso procedimento esperienziale che mette in atto il cervello nel momento in cui gli si vieta di pensare qualcosa e allora, immediatamente, rivendicando un’anarchia umana primordiale, lo fa.

Misteri della mente. Ma, infondo, “la meccanica non mi interessa”.

Al di là di ogni pregiudizio, però, vuoi perché ero in una fase di pendolarismo frequente, vuoi perché quel titolo era apparso ai miei occhi troppo evocativo, quel libro ho iniziato subito a leggerlo. E’ stata una delle rare volte nelle quali le aspettative sono state largamente soddisfatte dalla realtà (perdonatemi un pizzico di pessimismo occasionale).

Delizioso quadretto, o meglio autoritratto, della vita di Vincenzo Malinconico, quarantenne retorico nella crisi che attraversa, ma cinicamente simpatico nel modo di comprenderla e raccontarla.

Avvocato dello spicciolo, democraticamente frustrato (quella frustrazione che ti nasce perché non ti piace quello che fai, o come lo fai, ma sai anche che il problema affonda le sue radici in un male sociale, dei “tempi moderni”; sai, quindi, bene che non ti è concessa neppure l’esclusiva sul malcontento e la delusione che provi). Un matrimonio fallito alle spalle, o quasi, due figli grandi con i quali coltivare un rapporto schietto quanto affettuoso.

Un uomo come tanti, un uomo come tutti.

Ma Vincenzo ha una marcia in più: ce l’ha da sempre, probabilmente, da quando il destino gli ha affibbiato un cognome in quel modo, addensando su di lui la nebulosa dell’equivoco, del buffo, dell’amaro. Come spesso accade, lui è proprio come il suo nome, malinconico, mentre affronta la vita a suon di ironia e sarcasmo, mentre revisiona il suo matrimonio e la sua separazione, mentre racconta dei suoi dubbi, dell’amore che forse finisce o forse no; è così anche quando cerca di parlare con suo figlio, quando cerca di capirlo nelle sue diversità, e persino quando manda a fanculo la figlia, stizzito per una battuta sui suoi fallimenti.

La sua malinconica ironia analizza la realtà della sua vita senza nessuna pietà, senza nessuno sconto al protagonista. La sua lucidità è la stessa che noi spesso (almeno io) non riusciamo ad avere, inteneriti dalla nostra vita, da noi stessi, incapaci di dirci, anche quando è necessario, ciò che diremmo tranquillamente a chiunque altro, anche (vale la pena ricordarlo) con un pizzico di soddisfazione. Perché riconoscere di aver infilato un errore dietro l’altro, di aver costruito palazzi, e addirittura grattacieli, su errori madornali è difficile, quasi impossibile prima che il crollo non metta fine ad ogni dubbio.

Ma Vincenzo lo fa e si tiene forte al suo cinismo, al decostruttivismo delle sue parole, della sua mente: scompone e parcellizza ogni momento della vita, ogni aspetto del problema, suo e degli altri.

Non si prende sul serio, si potrebbe dire; ma, in questo modo, è capace di dirsi come stanno veramente le cose e di ricominciare a costruire, distruggendo ogni cosa.  

Un modo di vivere parecchio interessante.

UNA VITA NORMALE

Una vita normale, una vita come tutti: lavoro, matrimonio, famiglia.

Una persona normale, io. Tanti sacrifici ed ora siamo felici: due figli che stanno crescendo e che ci stanno piacendo. Perché mica piacciono sempre i figli: ti dicono che dovrebbe essere così, ti dicono che è una questione di sangue e che, quando toccherà a te, capirai.

Poi è toccato a me, e ho capito che non è proprio così. Anzi, a dire il vero, l’ho capito molti anni prima di conoscere i miei figli, quando ho conosciuto meglio mio padre: lui, mentre la mamma si riempiva la bocca dell’amore materno, del “solo un genitore può capire”, stava zitto e, ogni tanto, mi guardava fisso, sotto quelle sopracciglia folte.

Mi ha voluto molto bene, quello è sicuro, ma piacersi è un’altra cosa, è proprio tuta un’altra cosa.

E’ brutto da dire e soprattutto da capire quando sei un ragazzino, quando se non piaci nemmeno ai tuoi, ti domandi come potrai mai piacere a qualcun altro. Deludere loro, soprattutto a quell’età, corrispondere a deludere te stesso, perché ancora non sei altro che l’idea che loro hanno avuto di te. Poi, però, gli anni passano veloci e quasi non c’è tempo di crucciarsi e ti può capitare, come è capitato a me, di ritrovarti grande e tranquillo, di aver capito bene quello che era successo: i figli si amano a prescindere (che poi mi sa che non è sempre nemmeno così), ma non è affatto detto che ti piacciano.

Infondo neppure i figli si scelgono, proprio come i genitori: puoi provare ad indirizzarli, a consigliarli, a plasmarli come vorresti, ma non tutti siamo dei bravi architetti. La verità.

Così io non piacevo un granché al mio babbo, non facevo le battute giuste, non sorridevo quando avrei dovuto, non sprigionavo quella piacevolezza che avrebbe voluto da me. Questioni di pelle.

Ora sono passati tanti anni, di acqua ne è passata un bel po’ sotto i ponti, sembra quasi un’altra vita.

Oggi tocca a me: sto conoscendo meglio i miei figli, il loro modo di parlare, di muoversi, le scelte che pretendono di fare, quelle delle quali non si vogliono giustificare. Mi piacciono i miei ragazzi, mi piacciono tanto.

Ne ho due: un maschio che ormai ha vent’anni e la testa incasinata persa, e una femmina in piena adolescenza e in piena crisi esistenziale: con i brufoli troppo grandi, proprio come la rabbia che vorrebbe sfogarci addosso. A volte, mi fa persino paura con quegli occhi rossi, che ti guardano fissi, con un livore di cui non riesci a capire l’origine.

Ma io sono un tipo tranquillo, lascio scorrere; sto sereno ed ammortizzo l’agitazione degli altri.

Non è, forse, questo che fa qualsiasi babbo?

 Poi c’è il ragazzo, Marco, che è proprio come me, un pazzo rilassato, un giocherellone pacifico, un giovane uomo con una gran voglia di vivere, talmente grande da non poter perdere tempo con la rabbia, l’odio, la tristezza. Che fortuna ho avuto ad avere un figlio come lui! Che fortuna ad avere un figlio che mi piace tanto! Son stato più fortunato del mio babbo io, forse anche un po’ più bravo…chissà.

Simone corre in moto, gli è sempre piaciuto un sacco: sin da bambino si emozionava tantissimo quando sentiva il rombo di un motore, iniziava a tremare e rimaneva fisso, con il naso in aria nella direzione dalla quale proveniva il rumore.

Appena ha potuto ha cominciato a chiederci espressamente di gareggiare, sembrava l’unica cosa che avesse senso per lui, l’unico senso che volesse trovare per la sua vita.

Con la mamma ha avuto un po’ più da discutere per convincerla, con me è bastato un attimo, uno sguardo; forse mi son fatto fregare dall’orgoglio, dalle parole di chi mi diceva fosse un campione, dalla voglia di dimostrare a lui quanto mi piaceva quello che era diventato, chi era diventato.

Si dice che i figli non si fanno per sé ma per il mondo, ed io ero troppo contento di consegnarlo al mondo così com’era, lo avrebbe arricchito.

Volevo dirgli assolutamente che non avrei voluto un figlio diverso, almeno io.

Quali fiori si scelgono, come si organizza una cerimonia come si deve?

E’ andata male. Sapevamo che sarebbe potuto succedere. Lo sapeva pure lui, ma continuava. Continuava a fare quello che sapeva fare, proprio come tutti noi; ognuno ha un lavoro da fare e lo fa, senza star tanto lì a pensare a come le cose potrebbero andare...o non andare.

Ci è concesso di scegliere poche cose nella vita, non possiamo scegliere i genitori, né i figli; non possiamo scegliere i fiori, quei fiori là non li vedremo mai.

A me, almeno, mio figlio piaceva un bel po’!

TEMPO PERDUTO

Willy passeggia sereno per viottoli polverosi e bianchi, tutti uguali, di tanto in tanto si ferma, sembra pensieroso, poi decide e si siede in un’aiuola verde, una delle tante che esistono grazie all’incrociarsi di quelle piccole vie. Aspetta Willy, ma nessuno saprebbe dire cosa. Forse ci piace pensare che aspetti, che nella sua mente di giovane cagnolino esista un progetto, magari più accurato del nostro, sul da farsi. E lui un progetto ce l’ha: sapientemente dosa le ore di esposizione al sole e il tempo dedicato al riposo, scodinzola all’arrivo di qualcuno, e si avvicina in cerca di coccole e di un cibo occasionale per passare anche questa giornata. Solo questo.

Abita qui, e la notte non ha paura.

Noi, invece, ci passiamo solo di giorno, solo con il sole, perché quando piove qui non c’è riparo e la tristezza prende il sopravvento; in alcuni periodi, però, ci passa un sacco di gente, in un via vai lento e silenzioso, e Willy si sente quasi violato nella sua casa, lui che ne è l’unico padrone, lui solo che l’ha scelta.

Ciò che lo ha attratto sin dall’inizio è il profumo leggero e acre dei fiori che appassiscono lenti ma che non smettono di colorare l’aria. L’ha scelto perché qui non esiste il tempo, non c’è più tempo, né fretta, né ritardo. Ogni giorno sarebbe esattamente uguale all’altro se non andassimo a trovarlo.

Se passate di mattina, ogni mattina, potrete trovarlo accoccolato vicino alla signora Maria, una signora d’altri tempi, lei che aveva visto una volta il duce e se ne era innamorata, che aveva sposato un partigiano valoroso e lo aveva aspettato, mentre distruggeva il suo sogno irreale. Lei che aveva dato alla luce tre figli maschi ma poi se ne era dimenticata, così come del marito e persino del suo caro duce. Cantava sempre quella canzone che parlava di un mazzolino di fiori, lei che di fiori ne aveva ricevuti pochi; ora non le mancavano più.

Il pomeriggio, poi, dopo un pranzo di fortuna e una passeggiata nei dintorni, Willy si siede silenzioso e fedele accanto a Lucia, una ragazza bella e sorridente. Ci va sempre dopo aver mangiato, quasi sapesse quanto lei non lo amasse il cibo; aveva fatto l’università, aveva studiato tanto e sapeva tutto, ma non aveva mai capito cos’è che la mordeva dentro e mangiava al suo posto la sua voglia di vivere. Aveva cresciuto due bambini, li aveva prima allattati e poi imboccati, e si era tanto vergognata per quel senso di nausea nel guardarli crescere. La sua di mamma l’aveva tanto amata, l’aveva riempita di sogni e futuro quasi fino a soffocarla, e una notte il fiato le era mancato davvero.

La notte, poi, il fedele cagnolino non cambia mai posto; vuole dormire sotto le carezze amorevoli della piccola Giulia. Lei che non ha nulla da raccontare, può solo ascoltare e sorridere con quegli occhietti chiusi. Non aveva mai visto il sole né la pioggia, solo la luce al neon di una camera sterile. Forse le aveva ricordato il blu dalla pancia della mamma, forse si sentiva davvero a casa, forse non aveva mai saputo come sarebbe dovuta andare; nessuno le aveva mai detto che la stavano aspettando, che il sole era anche per lei. Ed ora è qui, in un posto senza tempo, lei che di tempo non ne ha mai avuto, non lo ha mai contato. Ha lasciato tutti ad aspettare, e ancora sono qui, senza capire.

Se passate di qui potrete incontrare Willy ed i suoi amici, persi, per scelta o per necessità, in un universo parallelo che non riesce a staccarsi e rimane appeso al tempo solo per ciò che possiamo ancora toccare. Se passate di qui, non guardate l’orologio, non fatelo mai perché potrebbe nascere in voi quel senso di colpa di chi come noi esiste nel tempo e nello spazio e non può sottrarsene: non parlate di tempo con chi non ne ha avuto, a chi ne è stato privato, a chi non se ne cura più. Portate piuttosto dei fiori profumati, che tanto piacciono a Willy, e cercate il senso in quello che è stato, non in quello che sarebbe potuto essere.

L'ALBERO DEI SOGNI

“E’ notte fonda, io mi trovo in giro, camminando in modo convulso tra le strade poco illuminate lontane dal centro. Sono arrabbiata, infuriata, dagli occhi scendono delle piccole gocce salate piene di livore; non si possono chiamare lacrime. Il passo è lento ma senza alcuna regolarità.

Rovistando nelle tasche trovo qualcosa…Guardo la mia mano, metto a fuoco, è un coltello.

Poi il buio: non so come sono arrivata a casa, non so cosa ho pensato, se ho pensato. I ricordi ritornano solo a flash, come lampi che disegnano il mio corpo sopra il suo, movimenti strappati, la luce è intensa, le mie mani insanguinate, quel profondo silenzio…e poi il suo viso, privo di vita…mia madre era lì.”

Mi sono svegliata di soprassalto, ero sconvolta; solo dopo alcuni secondi ho realizzato che non era vero, che non era possibile quello che avevo visto. Ma l’affanno non passava. Stavo male, il cuore non rallentava più e, paradossalmente, l’idea che fosse stato solo un brutto sogno non mi rassicurava affatto. Ho passato la notte in un continuo andirivieni di sonno e veglia, appena aprivo gli occhi mi saliva un nodo in gola e mi chiedevo come la mia mente avesse potuto produrre un pensiero così assurdo, così violento.

I sogni sono sogni: a me piace pensare che la mente metta in atto una scenografia, proprio come quella dei grandi film, per raccontare una storia o magari più di una storia. Come nei film spesso la trama principale non rappresenta a pieno l’idea che quella pellicola vuole comunicare. Allo stesso modo la nostra mente narra delle storie prendendo elementi qua e là dalla quotidianità, volendoci però comunicare qualcosa che magari va al di là della storia stessa.

Continuavo a ripetermi queste parole quella notte.

Non è forse così?

Oggi non vuole proprio rispondere alle mie domande; se ne sta lì seduto su quella sedia alle mie spalle a prendere appunti su di me e su quello che dico sul Suo taccuino blu…chissà cosa scrive…

Ieri ho pensato al fatto che non L’ho mai vista scrivere, è incredibile. Dopo mesi di conoscenza, di terapia, ho potuto solo costruire nella mia mente un’immagine della Sua persona intenta a scrivere, niente di più. Tante volte ho pensato di voltarmi, proprio nel mezzo della seduta così da avere un’immagine reale da fissare nella memoria. Proprio come Psiche che non riesce nella notte a resistere alla tentazione di vedere il volto dell’amato, e poi dovrà pagare per la sua scarsa fiducia. Avrei potuto farlo, credo.

Tante volte mi ha consolato, mi ha rassicurato, mi ha accolto quando mi lamentavo e nessun altro lo faceva: ogni volta si avvicina a me con fare quasi paterno, ma poi ecco che subito si allontana, torna ad essere il medico, l’autorità distante e gelida, ma anche la certezza. Non so dirLe quando La preferisco. Certo però preferirei che oggi mi dicesse qualcosa, qualsiasi cosa, vorrei tanto delle risposte su questo mio sogno.

Un sogno è un sogno: probabilmente ho un po’ di aggressività che mi opprime, ho bisogno di sfogo…e allora la mia mente produce un’immagine così violenta. Una sorta di catarsi notturna. Una cosa penso sia certa però: mia madre non c’entra nulla, non abbiamo neppure litigato e tra noi non c’è nessun problema, tutto come al solito. Questo è quello che penso, e direi di esserne sicura; infondo un sogno violento non fa certo di me una persona violenta…e non fa certo di mia madre una vittima di sua figlia. Probabilmente Lei non parla perché sto ragionando in maniera corretta e certo non c’è bisogno di ulteriori conferme da parte sua. Il Suo silenzio è la maggiore rassicurazione che possa darmi.

Non sono una persona insicura, non lo sono mai stata. Sono una persona pratica, efficiente, che va dritta per la sua strada. La gente intorno a me mi ritiene un punto fermo, li rassicuro perché so sempre quello che bisogna fare, mantengo la calma e non ho paura. Certo mi piace quello che sono,

è bello vedere che le persone si affidano a te, che ripongono in te la loro possibilità di concedersi delle debolezze, è un grande atto di fiducia. Io però non mi fido molto degli altri, credo che il mio sia un giudizio empirico: a giudicare dai rapporti umani e da tutti quei pasticci che possono accadere meglio stare sempre all’erta, per non soffrire troppo.

Sono una persona salda e credo Lei sappia quanto sia stato difficile per me venire qui ed ammettere che nonostante tutto le cose potrebbero andare meglio, che potrei sentirmi meglio, che ho sperato anche io per un attimo di essere felice nella maniera più frivola del mondo.

Dopo poco tempo, però, ho capito che questo era un posto speciale, che se esisteva un luogo dove avrei potuto lasciarmi un po’ andare era proprio questo. Qui c’era uno spazio aperto, di cui avrei potuto disporre, riempirlo di parole e pensieri o di silenzio. E’ il mio spazio verde, verde come una pianta nutrita dal sole. 

La tranquillità poi era Lei, con la Sua penna, la Sua scrivania, la targhetta sulla porta e il Suo libretto delle ricevute messo lì, proprio accanto ai miei racconti. A volte penso che quella donna che giace su questo lettino non sia io, a volte penso di non conoscerla, ma non fa paura. Mi diverte pensare a me finalmente sotto un’altra luce, mi piace ammettere le mie mille sfaccettature tutte insieme, tutte possibili. Quando Le racconto qualcosa che ho pensato o sognato mi sento come una bambina che dice una parolaccia e subito dopo si copre la bocca con la manina per la vergogna, o magari solo per provocare negli altri una reazione; quella bambina sotto la manina contratta, infatti, sorride beffarda e gli occhietti si illuminano di un lampo di sfida. Io qui sono così, sono quella bambina…


Qui lo spazio è rassicurante tanto da potermi affezionare a questa sedia o a questo quadro che è sempre davanti ai miei occhi; ma mentre penso questo mi accorgo che è anche sterile, perché sebbene i colori e le forme inducano calore proprio come una casa, in realtà capisco di non provare nessun sentimento e che, addirittura, non saprei neppure dire che cosa rappresenta questo quadro, non l’ho mai fissato nella mente, non l’ho fatto mio.

Ed allora capisco…

Capisco che qui sono protagonista, ma ad un livello differente da qualsiasi altrove che potrei immaginare: qui davvero non conta affatto quello che indosso, o come acconcio i capelli; qui non conta neppure quello in cui credo, le idee che porto avanti e che credevo costituissero la struttura di me stessa; qui non conta neppure Lei che è strumento molto efficace in un dialogo difficile tra quello che sono e quello che penso di essere. E’ veramente come spogliarsi pian piano dei tanti strati che ci hanno arricchito ma anche appesantito da sempre; come un albero che ogni anno aggiunge un anello e diventa sempre più grande e solido, ma la corteccia è lontana dalla linfa che scorre dentro e magari la confonde. E allora bisogna tornare esattamente lì, nel momento in cui esiste il nostro essere prima, essere al di là, essere pienamente con sé stessi.


NON LUOGHI

A volte capita di trovarsi in alcuni luoghi che sembrano non avere una loro realtà, sono dei luoghi non luoghi; quando ci si trova in posti come questi li si scopre, ogni volta per la prima volta, statici, immobili allo scorrere del tempo, silenziosi in attesa che qualcuno si accorga della loro esistenza. Sono luoghi di passaggio, di transito, quelli in cui non si sceglie mai di andare se non come una tappa obbligata in vista della meta, ma non sono mai meta.

Oppure può capitare che siano dei posti come tanti altri, nati per uno scopo, scelti ed apprezzati, che rischiano, però, di violare la loro essenza. Qui ci si può perdere: di solito li scegliamo per vedere e non essere visti, per sentire il silenzio in mezzo al frastuono, per stare un po’ soli accanto ad altre mille persone. E’ proprio in posti come questi che sfugge la prospettiva, si perde il punto di vista ed, improvvisamente, tutto intorno a noi appare esattamente sullo stesso piano dell’orizzonte, alla stessa distanza, abbastanza vicino da non essere sfondo, ma abbastanza lontano da non essere soggetto.


UNA BOCCATA D’ARTE

L’autobus è appena passato, nell’attimo esatto in cui Anna inciampava nel guinzaglio del cagnolino che aspettava, accanto a lei e alla sua padrona, che il semaforo pedonale si illuminasse di verde. Un solo attimo di distrazione e…. ecco fatto! Un movimento sgraziato, un timido guaito spaventato, e il segnale acustico dell’autobus che segnala, tristemente, la chiusura delle porte. Ora Anna dovrà aspettare l’arrivo del prossimo e sperare di arrivare in tempo prima della chiusura della biglietteria. Da tempo, infatti, voleva vedere questa mostra e così il primo pomeriggio disponibile, eccola pronta per andare. Nell’attesa, seduta sulla banchina, approfitta per sfogliare la brochure e fermare nella mente tutte le informazioni utili per la fruizione delle opere. Già immersa in quella fantastica atmosfera sale sull’autobus fermo senza neppure badare alle altre persone, trova un posto a sedere e continua la sua lettura.

Che fortuna! E’ riuscita ad arrivare proprio nel momento migliore, quando la coda davanti alla biglietteria è quasi svanita ma poco prima che il museo non chiuda al pubblico. Un momento ottimo anche per vedere le opere in tutta calma. Oggi però, all’entrata nella prima sala, si accorge che c’è ancora molta gente intenta a scrutare, persino dei gruppi organizzati di turisti. Peccato! Sarebbe stato davvero bello poter godere di un po’ di calma, dopo una giornata piena di rumore.

In realtà Anna ancora non sa che a catturare la sua attenzione in questo tardo pomeriggio primaverile non saranno le notevoli opere esposte… Ecco infatti avvicinarsi un gruppo di persone di mezza età, vestiti in abiti sportivi, cappellini dello stesso colore, che parlottano l’uno con l’altro creando quasi un coro armonioso. A pochi passi da Anna si fermano tutti insieme e si voltano in attesa; pochi secondi e in quella piccola folla si apre un varco e ne esce una donnetta frenetica e spettinata, con il trucco un po’ sciolto intorno agli occhi: la guida. La donna, con passo sicuro e un po’ rumoroso, si dirige verso il quadro, si volta e, dopo aver rivolto un sorriso simulato ad Anna, inizia il suo resoconto. Ecco che la voce si fa più suadente e seducente quasi per convincere gli astanti del fascino suo e della tela, alla quale però volge con noncuranza le spalle. In qualche minuto riesce a mettere insieme dettagli autobiografici, rudimenti stilistici e persino annotazioni critiche comunemente condivise. Il gruppo rimane diviso tra coloro che si accalcano a ridosso del limite consentito, per sbirciare da vicino il fuoco dell’arte ed un gruppo più nutrito che si sistema con tranquillità più indietro; tutti però, a prescindere dalla distanza sfoggiano nelle loro mani una radiolina dalla quale esce appena disturbata la voce della donna e le sue narrazioni.

Anna pensa per un attimo di poter approfittare di quei racconti, di quelle informazioni gettate lì nella speranza di seminare, almeno in qualcuno, un briciolo di interesse che possa sopravvivere al viaggio di ritorno. Dopo pochi minuti però si scopre persa nell’osservazione dei volti, dei movimenti di quelle persone. Alcuni attentissimi ad ogni singola parola “proferita” dalla radiolina, quasi a riconoscere in essa l’essenza stessa dell’essere guida; altri che annuiscono e fissano la tela cogliendone l’aspetto più intimistico e cercando, in quelle pennellate, un contatto con i sentimenti che essi vogliono provare; altri ancora, annoiati indietreggiano ed aspettano il passaggio al prossimo quadro, che peraltro hanno già ampliamente sbirciato. La pennellata finale dell’affresco, però, arriva quando, per qualche mistero della tecnologia o chissà per quale altro motivo, quei piccoli trasmettitori, smettono di funzionare come si deve e iniziano a trasmettere la voce come alla radio quando si perde la frequenza giusta; un coro di grida scomposte e indignate si alza e tutti si voltano verso quella donna, chiedendole di ricominciare nel punto esatto nel quale la comunicazione si è interrotta, quasi non potessero perdere neppure una parola di quella spiegazione.

In mezzo a tutto questo baccano, Anna non si accorge che involontariamente sul suo viso è apparso un sorriso: pensa a quanto siano diverse le percezioni delle persone, a quanto diverse possano essere le impressioni, le sensazioni che una tela può comunicare; guarda quelle signore composte, attente che sembrano voler ascoltare ogni parola nell’attesa di un passaggio magico di sensazione da quella voce, verso i loro occhi, fino alla loro anima. Aggrappate alla radiolina ci sono tante persone che cercano qualcosa di più della loro quotidianità, persone che hanno capito che esiste un altro livello di piacere, di benessere che prescinde dal fare o dal non fare; hanno capito che il limite può passare proprio lungo la porta di quel museo. Anna capisce che anche qui le persone si cercano, in un modo diverso magari, ma si cercano, si attendono, si danno una possibilità; per questo sono qui. Mentre pensava queste cose incrocia lo sguardo di un bambino con i suoi occhi un po’ sperduti che perlustrano vigili tutto intorno. Poi quegli occhietti si alzano verso la tela, un solo attimo, ma intenso, una luce brilla, un guizzo di vita, di piacere immediato. Quello stesso piacere che si opacizza negli anni e nelle riflessioni, nelle discussioni, nella ricerca della parola giusta, del termine più idoneo, più caratterizzante, quel termine che possa chiarire, rendere intellegibile al mondo ciò che forse è già tutto contenuto in uno sguardo, in quel primitivo sguardo.





“Attenzione prego, si comunica che il museo è in chiusura, siete pregati di avvicinarvi all’uscita. Grazie.”           






PERCHE' SCRIVERE? PERCHE' SCRIVO...



Perché non so fare delle belle foto…e mi piacerebbe tanto saperle fare. Sarebbe bellissimo fissare un momento, rubarlo al tempo e renderlo unico come è apparso ai tuoi occhi. Mi piacerebbe tanto, ma non ho mai pensato concretamente di fare qualcosa per avvicinarmi a questo mondo. La verità.



Sembra strano detto ad alta voce, o scritto! Ma credo capiti a tutti; perché facciamo qualcosa? Perché non la facciamo? Ad alcune domande non ci sono delle risposte, o meglio spesso non sono così evidenti, oppure noi non le vogliamo conoscere. D’altro canto, per chi come me non fa altro che pensare, rimuginare, considerare ogni punto di vista, è veramente fantastico riconoscere, con buona pace della tua ragione, che non ti interessa sapere il perché, il motivo profondo che ti guida.

Tacita accettazione del divenire che ti colpisce, ti coinvolge, a volte ti determina.



E allora scrivo! Scrivo per fissare un pensiero, un’idea che in quell’esatto momento si è conquistata la mia attenzione, mi ha affascinata. Scrivo per descrivere la stranezza, il confine, la discrepanza nel mondo, o meglio, nel mio mondo; perché non lo saprei fotografare. Tutto qui.



Scrivo e descrivo…perché a volte ciò che ci si pone davanti agli occhi, ciò che è reale e quotidiano suscita un senso di stupore; perché a volte la normalità sorprende, delude, immobilizza, stupisce; e ciò che ci stupisce, che ci emoziona, che ci mette a disagio dovrebbe proprio essere raccontato, partecipato.



Scrivo perché non parlo molto e probabilmente racconto troppo poco. Perché a volte si parla molto ma non si racconta nulla, a volte si parla poco ma si racconta molto. A volte, tutt’altro.

Io comunque potrei fare di meglio.



In fondo si scrive sempre sperando che qualcuno legga, capisca, ti sia vicino anche solo per quell’istante. Chi dice che scrive per sé, traduce il narcisismo in umiltà, inverte il senso della comunicazione: si conosce se stessi, si comunica con gli altri.



Se avessi saputo scattare delle belle foto, non avrei dovuto utilizzare le parole; sarebbe stata una comunicazione diretta, immediata, senza filtri o quasi.

Diversa, sicuramente diversa.



Ma le parole…le parole sono proprio una bella invenzione.