"La gente a tutto è disposta a rinunciare, fuorchè ai propri errori."

(Indro Montanelli)







giovedì 12 luglio 2012

DIALOGHI D'ARTE

Cosa si prova nel vedere la propria opera completa, stampata, proiettata o ascoltata? Ci si sente almeno un po’ spettatori come tutti gli altri?
Quanta affezione si può ancora sentire, quanto senso di perdita, di qualcosa che, infondo, se ne è andato e non è più nostro…

Parli con un regista, siete in un bar, in una minuscola piazzetta di montagna, lontana anni luce dal mondo, da quel mondo. Allora cogli l’occasione, prendi un bicchiere di vino e riproponi la domanda che ti è sempre sembrata quella fondamentale, quella da cui partire.

Perché si possono chiedere davvero tante cose ad un artista, o almeno molte sono quelle che vengono realmente domandate: questione di dinamiche, di situazioni. Di civetteria, a momenti.

Spesso, non vogliamo neppure sapere niente, in un’invisibile mortificazione collettiva; sono le volte in cui ti basta una foto, addirittura una firma.
Perché di una firma si parla, fuori da ogni congettura romantica.
Fermiamo in questo modo, nient’altro che un individuo, colto in un momento di assoluta non arte.

Manchiamo l’obiettivo.

L’autografo di un pittore, non è dipinto.
La foto dell’attore non coglie il personaggio.
La dedica di uno scrittore non è narrazione.

E’ la grande metonimia: la parte per il tutto, il tutto per la parte; il contenuto che si confonde con il contenitore. Allora vorrei tanto la maglietta di quel cantante così come, perdonate l’ardire, la reliquia del santo.

Avvicinamenti progressivi e sgraziati, nella convinzione di arrivare alla fine.

Il problema è che vorremmo bloccare un pezzetto di arte e portarcelo via con noi, vorremmo toccare e capire un’emozione.

Con il retino a caccia di raggi di sole.


Ma ancora di più mi domando cosa significhi stare dall’altra parte; passare ore tra aerei ed automobili, per venire quassù infondo al mondo, rispondere con maggiore o minore eleganza e gentilezza alle solite domande, prendere una targa argentata, l’ennesima, un pacco di salumi e formaggi e poi andar via.
Mangiare la vita a piccoli morsi scomposti, vedere la luce in fugaci lampi accecanti.

Potrebbe raschiarti l’anima: un mio dubbio.
Sarebbe un bel prezzo da pagare, anche per l’arte, forse.

E poi, il grande protagonista, la tua creazione presentata, apprezzata, applaudita.
Tu la guardi, la osservi, la riconosci.
Ma è già lontana, è già qualcosa di molto diverso, non è più, se non in parte, la tua opera, la tua idea.

Nel momento esatto in cui esce dai tuoi occhi, così come l’avevi vista per la prima volta nella tua mente, e diviene qualcosa che puoi osservare anche tu, con altri occhi, se ne è andata.
L’hai perduta nella sua essenza primitiva.

Dicono che le creazioni artistiche sono proprio come i figli, solo che con quest’ultimi una buona parte del progetto viene lasciata al caso.

Non amo molto questo parallelo, lo trovo troppo sentimentale, poco autentico.

Va riconosciuto, però, che nel senso di possesso e poi nella perdita si assomigliano davvero.

Qualcosa di profondamente ed univocamente tuo, qualcosa a cui ti senti legata da sempre, qualcosa di cui ti riconosci artefice e responsabile; la chiara consapevolezza, sin da principio, della partenza, dell’abbandono ineludibile, del volo necessario.

Si dice che i figli si fanno per il mondo, ma è una bella bugia.
I figli si fanno per sé stessi, per godere di quel lasso di tempo in cui saranno solo nostri, in cui saranno i nostri manufatti; con un po’ di fortuna, delle vere e proprie opere d’arte.

Ma, come in un libro, conosci già l’ultima pagina.