"La gente a tutto è disposta a rinunciare, fuorchè ai propri errori."

(Indro Montanelli)







giovedì 1 dicembre 2011

ERA SOLO UNO SPUNTO

Passavo, leggevo, pensavo.
Più precisamente: passavo nel web per controllare la posta, leggevo distrattamente un articolo di un giornale, pensavo a quanta paura e quanta confusione stia iniziando ad infiltrarsi negli anfratti della nostra mente.

Pare, e lo dico nella maniera più neutrale possibile, che uno studio di qualche pregevole università abbia rintracciato un collegamento tra il grado di istruzione delle donne e la loro prolificità; pare, quindi, che quanto più una donna studi, acquisisca conoscenze e competenze, tanto più tenda a rimanere nubile e a non fare figli.

Il giornalista che riporta questa notizia, con il sarcasmo dell’editorialista e il disincanto dell’uomo che sa di sapere, sposa con sobria convinzione la tesi.  Se vogliamo salvare il nostro paese, continua, in preda ad una profonda crisi demografica e sull’orlo dell’estinzione, abbiamo a disposizione due possibilità: indulgere sull’immigrazione sempre crescente da paesi che non hanno certo il problema demografico, e/o convincere le nostre donne, colta testimonianza della crisi sociale odierna, ad “appendere il libro al chiodo”.

Come era facile prevedere, subito l’articolo viene seppellito da interventi scandalizzati e sconcertati di donne, e non solo, che rivendicano la loro posizione e inorridiscono davanti a tanta volgarità di pensiero.

Anch’io, come tutte le donne sono stata colta da questi sentimenti; mi sono sentita immediatamente offesa nel profondo, mi sono sentita privata della mia identità istintiva, biologica. Ho pensato che di nuovo accadeva quello che spesso è accaduto nei secoli e nelle nostre brevi vite (per lo meno a me è capitato spesso di pensarlo): si segue una strada, si intraprende un percorso, si ottengono risultati che, però, “magicamente”, una volta acquisiti, diventano della armi affilate capaci di ritorcersi contro di noi.
Niente di nuovo.

Ho ricordato i testi che ho studiato all’università, ho pensato al libro che proprio in questo periodo, sto leggendo: “Ave Mary” di Michela Murgia (interessante). Ed ecco che subito vengo investita da suggestioni di pensiero femminista, da rivendicazioni di una parità sempre mancante, dall’amaro di un gioco che non arriva mai ad una soluzione. La donna ha un ruolo sociale ben definito. E’ vero, negli anni è cambiato, si è trasformato, ma un ruolo è sempre un ruolo. Un ruolo è un posto, e ciascuno di noi ne ha uno. Chi non ce l’ha, in sostanza, non partecipa al gioco. Un ruolo è sempre parziale, sempre mancante, sempre costituzionalmente incapace di rendere giustizia della nostra complessità, delle nostre sfumature.
E la donna (perdonatemi la rivendicazione nuda e cruda) ne ha sempre sofferto più degli altri.

Allora mi ritrovo qui, davanti a questo schermo, io che sono cresciuta senza questa preoccupazione, in anni di celebrazione dell’ emancipazione (in anni così lontani che probabilmente invece di aver assimilato il passato, lo hanno dimenticato) mi ritrovo qui, combattuta e frustrata nello scoprire che, infondo, quella ricerca un po’ di ragione ce l’ha davvero. Certo non credo che la mia istruzione, così come quella di tante altre donne, mi potrebbe impedire di essere mamma, di pensarlo e di desiderarlo: è una violenza mentale, un ricatto inaccettabile.

Penso però che il nostro mondo si sia allargato, che abbiamo ammesso la possibilità di non corrispondere ad un modello statico. Penso che abbiamo ancora tanta voglia di dimostrare una parità che tarda ad esistere nel profondo, e probabilmente non esisterà mai.

Penso e ripenso.

Penso che ognuno di noi ha un ruolo, un ruolo più o meno complesso, composito. Penso che non riusciremmo ad esistere fuori da una categorizzazione; sarebbe un’anarchia utopistica.
Penso che ciascuno paga il prezzo di rientrare in un ruolo che gli andrà necessariamente stretto, e perderà una parte di sé.

Ritorna l’amarezza che accompagna sempre queste riflessioni.

Ma penso ancora: penso che il problema sia stato mal posto, che ci sia stata un’inversione nel modo di leggere la realtà. Fatto frequente.
Penso che se le cose vanno in questo modo, se le donne colte spesso non fanno figli o ne fanno pochi, la soluzione non può essere, come sembra sia già accaduto in passato, quella di toglierci una possibilità, la libertà. Nemmeno in un articolo scritto con provocatorio disincanto.  
Se volessimo (e pongo il problema sotto forma di ipotesi, perché rimane il dubbio circa la reale volontà di affrontare il tema) davvero analizzare la questione ci sarebbe anche da domandarsi come mai la società non è ancora pronta ad accogliere le donne, per quello che sono, a tutto tondo, nelle loro sfumature. Come mai una donna è necessariamente una moglie e una mamma: potenziale, effettiva o mancata.
Come mai la società non è ancora pronta ad accogliere l’individualità degli esseri umani tutti, uomini o donne che siano, e li stigmatizza in un dualismo bene/male, giusto/sbagliato, funzionale/disfunzionale.

Penso e il pensiero sfuma, confonde: bisognerebbe fermarsi, riflettere, chiarirsi le idee.
Ma, infondo, era solo uno spunto.

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