"La gente a tutto è disposta a rinunciare, fuorchè ai propri errori."

(Indro Montanelli)







domenica 19 febbraio 2012

LOST IN TRASLATION

Ivan Ilijc, Pozdnicev, Casanova e alcuni personaggi di Svevo: che cosa hanno in comune?
Banalmente, sono i personaggi, meglio le persone, con le quali mi sono imbattuta nelle ultime settimane. Di loro mi hanno colpito le vicende del tutto personali, le preoccupazioni e le paure.
Li ho scelti nell’intento di saltare da una vita all’altra, da un periodo all’altro, da un mondo all’altro.

Li ho scelti per sentire delle storie, per leggere degli affreschi veloci ma intensi, per ricordare a me stessa come bastino, infondo, poche righe per descrivere una vita intera.
Ma infondo (e lo dico in totale confidenza), li ho scelti per nutrire il mio ego: quale potere, quale ricchezza può darti la convinzione di poter comprendere, in qualche modo, di poter partecipare anche solo per un breve istante della vita di persone così lontane. Ti appassioni, entri nelle loro menti, nelle loro vite, senti di capirli fino infondo e poi salti su un’altra vita, in un’epoca lontana.
Non siamo personaggi di un libro, o almeno non ci sentiamo tali; non ne abbiamo l’intensità. A noi, poveri lettori è concesso solo il vantaggio della soggettività. Giacomo Casanova, con il suo fascino e le sue peripezie, non avrebbe certo letto Tolstoij né compreso i turbamenti di Svevo (almeno così mi piace pensare!). Quella Trieste non ha niente da condividere con la Venezia della dissolutezza felice. E la Russia è lontana, troppo lontana.

Che piacere immergersi, succhiare nelle loro vite, sentirsene parte e poi, in un attimo fuggire via, lontano in ogni modo.

Ma siamo esseri razionali, schiavi di una modernità ormai acquisita, con il vizio dell’induzione.

E allora non basta. Ci si ferma, ci si distanzia (la giusta distanza da ogni cosa).
Ecco dunque spuntare un’idea, proprio laddove non te la immaginavi e (lo confesso) dove non la volevi di certo trovare. Perché se è difficile sentirsi unici come persone reali e relative, almeno che rimangano unici i personaggi, i nomi che hanno dato ad una penna un senso più alto.

Invece no. Invece, mi ritrovo a pensare (ma forse è semplicemente un vizio della mia mente) a quanto tutti questi personaggi abbiano in comune. Sono uomini veri, epici e deboli allo stesso modo. Tormentati, di un tormento che potrebbe sentire ciascuno di noi. Uomini [ e forse non è un caso siano tutti uomini, forse sì] segnati dall’incapacità di gestire la complessità della loro anima, il loro sentire che irrompe forte negli schemi della vita, della quotidianità, della società. Ivan che ha votato la sua vita alla mondanità, ai piaceri sociali, al perbenismo pensando fosse la sua vera natura, e poi muore parchè incapace di accettare il suo fallimento; muore nel momento in cui deve guardare in faccia l’inganno di cui si è sempre nutrito. Non ha retto il gioco che lui stesso aveva costruito con tanta dedizione.
Pozdnicev, invece, è un uomo logorato dal sentimento della gelosia, dall’idea che fosse tradito un modello di vita al quale si era votato, ancora una volta un castello di carte che va in pezzi. E poi il vecchio di Svevo con la sua giovane passione che brucia troppo e poi si spegne. Combattuto tra la possibilità di godere di ciò che la vita ci offre pagandone il prezzo, e la volontà di innalzarsi moralmente e preparare la sua anima all’altrove che l’aspetta. Anche lui, infondo, alla ricerca della “giusta” distanza dalla vita.

Infondo tutti alla ricerca di un senso. Tutti persi tra ciò che dovrebbero o vorrebbero essere e ciò che non riescono a rappresentare, a rappresentarsi. Perché spesso la vita sembra essere proprio una questione di rappresentazione, si mette in scena una storia, la storia che si crede di voler o poter vivere. Le contingenze ci sono, ma vanno ricondotte al copione. (Magari un canovaccio)
Allora mi viene in mente Pirandello, “Così è se vi pare”, “Ciascuno a suo modo”: la relatività dell’essere, dell’esistere, del credere.

Perché infondo lo sappiamo bene. Nel profondo ciascuno conosce le regole della vita. (Forse le consuetudini dell’esistenza.) Possiamo accettare, strizzando il naso, di essere relativi, scarsamente epici, di vivere una vita che non sarà mai quella che ci raccontiamo nella mente. Noi che, tutto sommato, assomigliamo ben poco a chi crediamo di essere. Ma ancora più difficile è accettare la relatività, la costitutiva parzialità di ciò che crediamo, dei precetti morali, delle leggi civili, dell’altrove che vogliamo a tutti i costi spiegare.

L’idea prevalente, come un odore acre in un pomeriggio d’agosto, è di perdita. Qualcosa ci sfugge, qualcosa si perde esattamente nel momento in cui il pensiero diviene parola…e poi ancora quando la parola viene ascoltata e compresa da qualcun altro. E il linguaggio è solo la forma più chiara in questo senso; la comunicazione tutta, piuttosto, è vittima di questo distacco. Così uno sguardo, un sorriso, un’emozione. Tutto sfugge e si perde in quello spazio vuoto che introduce la rappresentazione.

Quante riflessioni, quanti studi…
Ma il sospetto è che rimanga irriducibilmente inaccettabile.



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