Ieri sono andata a vedere, con discreto ritardo, un film che immaginavo avrei trovato molto interessante: “This must be the place” di Paolo Sorrentino. Sono bastate poche immagini, infatti, per riportarmi subito a quelle forti sensazioni che avevo provato anni fa nello scoprire “Le conseguenze dell’amore”. Sono passati anni e ancora oggi non saprei descrivere cosa provo davanti a quel film: posso solo ricordare quel senso di apnea, una sorta di soffocamento senza ansia, senza paura.
E’ stata questa, dunque, la riflessione che ha occupato i miei pensieri già dai primi minuti; Sorrentino riesce a restituire, in un modo acuto e piccante, come un odore forte di spezie in un pomeriggio torrido, lo straniamento dell’uomo. Descrive situazioni particolari, personalità complicate, è vero, ma ben presto, nello snodarsi della pellicola, ti trovi immersa in quella sensazione e la riconosci come familiare, come se l’avessi provata anche tu. Quell’idea sottile di inadeguatezza, di squilibrio nei confronti del mondo, l’ingombrante sospetto di non essere a tuo agio nella tua vita. Infondo, che cos’è che ci appartiene più della nostra vita? Esiste qualcosa che sia più profondamente legato a noi, che ci determini e con il quale dovremmo sentire un’esatta corrispondenza? La sensazione che qualcosa stia sfuggendo, o meglio sia già sfuggito, non può quindi che suscitare in ciascuno un misto di paura, incredulità e dolore silenzioso.
Uno stridere di denti nel pieno della notte, una perdita di controllo.
Subito dopo, lo riconosco, ho pensato alla mia situazione: ero sola, giovedì pomeriggio, in un cinema che proponeva un cineforum dal quale tutti poi siamo scappati. Intorno a me (perché se sei da sola ti rendi conto di quante chiacchiere riesci a cogliere anche involontariamente), persone di mezza età, avvolte in cappotti e pellicce che parlavano di cinematografia, di scelte di regia, di attori validi e di meteore dello showbiz. E come al solito, mi sono ritrovata a domandarmi, quanto ne sapessero davvero, quanto ne raccontassero, quanto la simulazione potesse trarci in inganno tutti e con tanta frequenza. [ Sarà davvero simulazione o solamente la genuina convinzione di sapere quel tanto da poter formulare giudizi che profumino di competenza? O sarà vera competenza che non so riconoscere? ]
A questo punto, abbandonato l’ascolto della recensione degli ultimi film in programmazione, ritorno al mio film ed inizio la seconda riflessione: l’immagine della donna restituita dalla storia. In una realtà come quella odierna, in un mondo fatto di tributi, di onorificenze, di negazioni e di oltraggi, ho trovato davvero elegante il modo di raccontare una storia nella quale i personaggi sono quello che sono, persone complesse e non stereotipi da messaggio promozionale, da morale della favola. Ed è in questa complessità che ho potuto notare come le donne di questo film, sono diverse, singolari e imperfette, ma sono anche tutte dotate di una forza, di una capacità di sostegno incredibile. Gli equilibri delle vite dei personaggi sono tutti retti da donne forti, capaci di invecchiare, di stancarsi, di impazzire se necessario, ma sempre di costituire un punto saldo per chi sta loro accanto.
[ Le femministe, a tale riguardo, direbbero che questa altro non è che una nuova e pericolosa riformulazione dell’etica della cura, della convinzione, maschile e femminile, che le donne siano nate per accudire, per prendersi cura degli altri (mariti, figli, genitori anziani…), che lo facciano bene e che, per questo, debbano in qualche modo continuare a farlo. Chissà…]
Ci sarebbero tantissime cose da raccontare del film che ho visto, tanti piccoli dettagli molto affascinanti, evocativi: ma racconterò quello che credo sia il più importante. Chi è il protagonista? Un uomo di circa cinquant’anni, un ex (rock star, tossico, famoso, felice…), un uomo come tanti che non ha saputo riconoscere il momento in cui passare dal “sarò” all’ “avrei potuto essere”.
Dite che di queste persone se ne trovino poche al mondo? Io credo, invece, che tutti noi, specialmente noi, corriamo lo stesso rischio; credo che potremmo scoprirci adulti, anziani, senza essere mai cresciuti. Sembra un paradosso, un’assurdità.
La più frequente e possibile assurdità dei nostri tempi.
E’ questo lo straniamento più grande del film, e non serve essere delle rock star o dei tossici, per capirlo e per viverlo. C’è un punto del film, in cui il protagonista si domanda come mai non abbia mai cominciato a fumare, nonostante gli innumerevoli vizi si sia concesso in gioventù. A rispondergli ancora una volta una donna: solo i bambini non conoscono la tentazione del fumo. Nel suo caso, il non aver conosciuto questa tentazione era la dimostrazione evidente del suo essere rimasto nel profondo un bambino. Affascinante interpretazione.
Potrei continuare per ore su questo tema a me particolarmente caro; potrei continuare a domandarmi come mai non riusciamo più a diventare grandi. Dovrei integrare analisi sociologiche con riflessioni psicologiche, bilanci economici con considerazioni politiche. Ma questo sarebbe tutt’altro.
Rimane una bella quanto spaventosa restituzione cinematografica di quello straniamento che almeno io sento con forza dentro di me e nel mondo.
Dimenticavo: l’esistenza della possibilità di un riscatto, di un nuovo ciclo. La speranza.
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